MOMA

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venerdì 15 agosto 2008

12.8.08
Wuhan

Wuhan non è solamente una fornace, è un forno al vapore in cui cuoci lentamente, l'aria è pesante, irrespirabile, bollente e umida. Bastano pochi passi per essere già completamente bagnato, il sole implacabile e coperto dalla solita foschia accende il cielo come in quei soffitti bianchi illuminati dalle lampade al neon.
Il “Bund” di Wuhan si trova nel distretto di Hankou, rinominato Yanjiang Dadao, è una copia in piccolo di quello molto più importante, anche storicamente di Shanghai. Anche Wuhan fu sede delle Concessioni Straniere a cavallo tra il 1800 e il 1900 ma, purtroppo, gran parte degli edifici neo-coloniali furono rasi al suolo dalle varie rivolte e sommosse popolari che infestavano la Cina pre-Mao.
Comunque rimane una bella passeggiata, purtroppo guastata da un caldo feroce, quasi “Birmano” o, forse, non siamo più abituati a un certo caldo dopo il fresco dello Yunnan o le temperature accettabili che abbiamo incontrato fino a qui. Il lungofiume, “Bund”, è un bel viale alberato dove gli abitanti di Wuhan vengono a cercare un po' di pace dal sole, c'è chi è sdraiato sulle panchine di marmo all'ombra delle piante, chi si inoltra nella vegetazione che arriva direttamente al fiume, lasciata crescere indisturbata e interrotta solo da qualche vialetto di terra battuta, creato dai piedi dell'uomo. Un gruppo di anziani sono nascosti in uno spiazzo, coperti da alberi, sembra loro strano incontrare due Occidentali perché ci continuano a salutare, guardandoci e ridendo tra loro.
Qualcuno fa il bagno nell'acqua ferma dello Yangtze, avvolto nella nebbia a con navi da carico, enormi chiatte e navi passeggeri che passano a poche centinaia di metri di distanza, la sponda del distretto di Wuchang, sulla riva orientale del fiume, appena si scorge attraverso il muro di umidità.
C'è qualche edificio dell'epoca coloniale, pochi per la verità, mischiati a grattacieli di uffici, banche e a un paio di strutture gialle, squadrate e marziali, tipicamente Comuniste, come il Palazzo del Governo Municipale di Wuhan, circa a metà Bund, il Monumento al Controllo delle Piene dello Yangtze, una stele con una stella rossa in cima e il faccione di Mao che guarda lo Yangtze. C'è un altissimo edificio con una sfera dorata in cima, sproporzionata rispetto allo slancio del grattacielo che sembra in equilibrio sulla punta. La maggior parte degli edifici costruiti dagli stranieri, Britannici soprattutto, sono diventati sedi di banche.

Arrivati alla vecchia Dogana, un edificio rinascimentale con colonne greche, la prosecuzione naturale diventa Jianghan Lu, una strada pedonale stracolma di negozi di abbigliamento sportivo, con marche note come Nike, Adidas, Converse, Kappa, a fianco di marchi sconosciuti, alcuni marchi alla moda Cinese, altri pure copie di quelli Occidentali, uno recita “Anything is possible” facendo il verso al motto della Adidas “Impossible is Nothing”; un altra insegna riporta un coccodrillo verde, tipicamente Lacoste con il nome “Clio Coddle”. La strada è un susseguirsi di qualche edificio coloniale, alternato a grattacieli residenziali con le immancabili finestre blu e i vestiti appesi.



Alle spalle della zona del Bund sta nascendo una città nuova, tutta grattacieli, sul modello di Kunming, Chengdu, Chogqing, insomma il solito stampo di città contemporanea cinese, senza alcun tratto caratteristico se non la ricerca dell'edificio più alto, più slanciato, più “Occidentale”. C'è la solita copia dell'Empire State Building che, come il suo gemello di Chongqing ha il solo effetto di essere tozzo, quasi monco di una parte.

L'esperienza con i tassisti di Wuhan mi fa ricredere della fiducia incondizionata che ho riposto in questa categoria, almeno qui in Cina, sempre precisi e onesti. Il tassista che ci deve portare agli uffici della China Southern, nel centro di Hankou, prima cerca di portarci direttamente in aereoporto, disegnando un aereo stilizzato su un pezzo di carta, dopodiché fa un lunghissimo giro tutto intorno al Ramada Hotel, alla cui base ci sono gli uffici delle compagnie aeree, distante si e no un paio di chilometri dal nostro hotel ma che diventano un quarto d'ora buoni passando tutto intorno per superstrade e cavalcavia. Arrivati agli uffici, un tassista ci mostra una cifra in un mare di ideogrammi cinesi, “60” facendoci capire che è il prezzo del biglietto della navetta per l'aereoporto di Wuhan, e proponendoci di portarci lui in taxi per 80 yuan, scrivendo i numeri sullo schermo del cellulare. La cosa mi puzza e, infatti, prendendo i biglietti al bancone costano 15 yuan.
“No good, no good!” urlo al tassista, puntandolo al cuore con il dito indice, con Ale che mi dice di lasciar perdere. Viene fuori tutta la mia ideosincrasia e odio viscerale per questa categoria maledetta. Fa prima un sorriso, poi sentendosi gli occhi puntati addosso, esce dalla biglietteria.

L'aereoporto di Wuhan sembra quello della Malpensa, il secondo aereoporto d'Italia e qui uno dei tanti delle capitali di provincia dello sterminato Paese. Una struttura su due piani cui si accede per un'autostrada dedicata, con tanto di cavalcavia. Una struttura tubulare, solo vetro e tubi enormi di acciaio, bianca, che sembra vuota tanto è grande e dispersiva. Dei semicerchi gialli e rossi appesi al tetto, altissimo, sono l'unica nota di colore. E' persino silenzioso e ordinato, così diverso dall'aereoporto di Kunming.
Boutique Samsonite, marche italiane di abiti sconosciute, con prezzi europei (un lucchetto per il mio zaino a 198 yuan rimane a prendere polvere sul suo scaffale) e il vizio tutto Cinese di accettare solo carte di credito cinesi,
“No VISA, bank!” indicando un punto sconosciuto in aereoporto dove ti costringono a prelevare per pagare tu le commissioni.

Volo comodo, un'ora scarsa per arrivare a Nanjing, nessuna luce in vista finché non sei a pochi metri dalla pista di atterraggio in quanto l'aereoporto è a 30-40 chilometri di distanza dalla città, in mezzo alle risaie (ricordo ancora i folli atterraggi birmani a bordo di impeccabili ATR 42, durante i quali l'atterraggio non era preannunciato da luci delle strade, delle case o altro ma semplicemente dal sobbalzo dell'aereo sulla pista di atterraggio).
Un'altra ora di autobus (15 yuan) per arrivare in centro a Nanjing, grande, sicuramente la città più estesa toccata sinora dal viaggio, come testimoniano anche i costi dei taxi che difficilmente scendono sotto i 20 yuan, incolonnati come saremo sempre nel traffico o lungo strade enormi che sembrano non avere fine.

Arriviamo all'hotel, Future Inn (anche se la scritta Future Inn non la troviamo da nessuna parte, sostituita da un più recente Mingri Hotel), 308 yuan, in pieno centro accanto a Xinjiekou, centro geografico e commerciale di Nanjing. E' tardi, qui fa buio ancora più presto, alle 8 di sera è già notte e mi mancano le sere lunghe di Zhongdian, dove alle 22 avevi ancora un po' di luce, con tutti i ristorantini e negozi aperti,

Giusto il tempo di lasciare i bagagli e via a cercare un ristorante, difficile che ci diano da mangiare alle dieci di sera, anche se l'impronta turistica Occidentale si nota nel prolungamento degli orari di apertura dei negozi. Troviamo un Café- Steak-Chinese, un locale con improbabili accostamenti di quadri, da New York primi Novecento a Biancaneve, sedie di metallo lavorato e una statua di un anziano con grammofono in vetrina. Il cibo è delizioso, tra gelati, caffè mischiati a qualunque cibo commestibile (dai prezzi esoso, non meno di 30 yuan), si trovano anche noodle e zuppe.

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