MOMA

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venerdì 21 luglio 2006

LA MACCHINA DEL TEMPO: VIAGGIO IN COREA DEL NORD

The "Day of Sun"
Tour to North Korea 11-18 April 2006

Martedì 11 aprile 2006


"Time machine, back to… I don’t know".
Timo, il compagno di viaggio finlandese, pronuncia queste parole ai piedi del Tupolev dell’Air Koryo, la compagnia di bandiera della Repubblica Democratica Popolare di Corea, ai vertici della black list tra le compagnie aeree, in Europa probabilmente non la farebbero atterrare nemmeno per emergenza.
Arriviamo in aeroporto alle 11 del mattino, ci hanno spostato il volo di circa 1 ora e mezzo, dalle 11.25 alle 13.00. Cause imprecisate, loro non dicono, noi non chiediamo, peccato però perché tra fuso orario (+1 ora rispetto Beijing, 7 ore avanti rispetto all’Italia) e l’ora e mezza di volo arriveremo che è già metà pomeriggio.
Finalmente abbandoniamo Pechino, c’è una cappa di calore e di polvere, il cielo color senape chiara, è in arrivo la tempesta di sabbia dal deserto di Gobi, se ne parlerà anche in Italia nei prossimi giorni, sembra nebbiolina, foschia legata all’umidità, in realtà è sabbia che circonda le auto, i monumenti, copre le strade di una polvere sottile rossa, hai voglia a bagnare le strade e i monumenti come fanno da qualche giorno.
Un campanello di allarme suona nella mia testa quando vedo la targhettina di ottone avviata alla carlinga dell’aereo appena entrati: caratteri cirillici e coreani circondano una data scritta in caratteri latini: 1963. L’aereo, il guscio metallico che dovrà portarci indietro nel tempo, ha 43 anni!
Se già non ero entusiasta di sfidare la statistica imbarcandomi nella prima compagnia aerea della lista nera, ora un brivido lungo la schiena mi farà compagnia finché metterò il culo per terra sul suolo coreano. L’interno non mette a proprio agio, spazi stipati, meno di 20 centimetri tra le ginocchia e la fila davanti, tavolini che non escono o che non si agganciano per chi come me è fortunato ad essere relegato in coda con un paravento davanti al posto del sedile.
Atterriamo finalmente a Pyongyang
La pista di atterraggio dista almeno 5 minuti di strada in aereo dal terminal. Cioè, uno di solito atterra sulla pista e intanto vede il terminal, tutti gli aerei parcheggiati; arriva in fondo alla pista e torna indietro. Qui a Pyongyang no: atterri in mezzo alle colline, marrone ovunque con qualche chiazza verde scuro. Attorno alla pista nessun essere vivente né costruzione elaborata, solo un paio di baracche con il tetto di lamiera ondulata, disabitate. L’aereo va avanti, pensi adesso gira e siamo arrivati, invece no, prosegue, ogni tanto gira a destra e a sinistra ma non accenna a fermarsi. L’aereoporto è circondato da un canale e da uno spesso muro di filo spinato con in cima i fili elettrici dell’alta tensione: mi viene il dubbio che anche questo mio notare il filo dell’alta tensione sia solo frutto del condizionamento di questo viaggio.
Finalmente vediamo esseri umani, dei militari che camminano sul ciglio del canale e delle persone indaffarate con qualcosa nell’acqua, e aerei parcheggiati, Antonov e Ilyushin, vecchi e decrepiti ma non per questo in disuso.
Mi accorgo di essere finalmente in Corea del Nord quando dal gigantesco finestrino dell’Ilyushin vedo il terminal dell’aereoporto internazionale di Pyongyang: la scritta Pyongyang con la prima di un’innumerevole sequenza di immagini del Grande Leader, sorridente come sempre, una fila perfetta di denti bianchi nonostante nelle fotografie ufficiali si può notare come non fossero proprio così. Scatto una fotografia furtiva del terminal, ho ancora un certo timore reverenziale nel fotografare, che presto mi abbandonerà.
Arriviamo nella capitale che sono quasi le 4 del pomeriggio. Dopo le formalità doganali che sono inspiegabilmente veloci, pochi controlli ai bagagli, facciamo la prima tappa al Mangyondae Schoolchildren Palace, dove assistiamo ad un’esibizione canora, di danza e musicale di bambini. Tutto perfetto, tutto in perfetta sincronia, quasi finto per non dire finto. Prima di portarci in hotel, le nostre 2 guide (una guida, Mr. Pak, e un presumibile agente dei servizi segreti, Mr. O) ci regalano la libertà di fare due passi in piazza Kim Il Sung, 75.000 metri quadrati di vuoto spinto, la piazza principale della capitale, della nazione che si affaccia sul fiume Taedong, il più importante del paese. La piazza, nemmeno lontanamente paragonabile a Tianan’men in quanto a grandezza, sembra immensa perché è completamente vuota. Ci permettono di camminare liberamente, tutti noi giriamo intorno ai 10 metri quadrati che penso siano quelli concessi, poi prendiamo coraggio a arriviamo fino sotto al Grand People’s Study House, che chiude a est la piazza, una libreria con 30 milioni di volumi: parole, parole, parole…
Arriviamo finalmente in hotel, il Yanggakdo Hotel, un enorme parallelepipedo di 47 piani isolato sulla punta di un’isola sul fiume Taedong.
Tutte le camere dei 12 del nostro gruppo sono vicine, al 29° piano con una meravigliosa vista sulla skyline di Pyongyang.
Ceniamo in hotel, nel "Revolving Restaurant" del 47° piano, un ristorante rotondo che gira per regalare una meravigliosa vista dall’alto di Pyongyang. Peccato che Pyongyang, di notte, sia completamente al buio.


Mercoledì 12 aprile 2006


Dopo la colazione "al solito tavolo" (peccato che il ristorante in cima all’hotel non ha punti di riferimento perché ruota), usciamo, rigorosamente in autobus, per andare a vedere la Torre Juche, un pennone in pietra di oltre 150 metri, eretto per i 70 anni di Kim Il Sung, orgoglio dei coreani perché è la torre in pietra più alta del mondo. In cima alla torre ci accoglie un vento gelido che accompagna la vista meravigliosa di Pyongyang, la parte ovest sviluppata e zeppa di mastodontici monumenti, la parte est popolare, palazzoni, quartieri dormitorio.
Tappa successiva la Mansudae Grand Hill con la statua enorme in bronzo di Kim Il Sung, il braccio sinistro alzato e sorridente dall’alto verso la città. Le guide ci fanno il "regalo" di poter camminare da piazza Kim Il Sung fino alla statua, passando davanti al palazzo dell’Assemblea, circa 500 metri di pseudo- libertà, controllati a vista. Due di noi fanno l’omaggio floreale alla statua del Grande Leader, 3 euro per un mazzo di fiori, probabilmente riciclato.
Sono curioso di vedere cosa ci propone il Museo Coreano dell’Arte, in Piazza Kim Il Sung. Qualche sala è destinata all’arte antica, cosiddetta tutte le opere fino al 1945, dipinti prevalentemente di contenuto paesaggistico; dopo il 1945 inizia l’arte rivoluzionaria, quadri enormi con temi ricorrenti: Kim Il Sung che visita un cantiere, Kim Il Sung sorridente in mezzo a contadini, bambini, militari, gruppi di cittadini che difendono un villaggio dai Giapponesi, Kim Il Sung e Kim Jong Il che intrattengono i Generali dell’Esercito. Strano a dirsi, ma è più interessante l’arte rivoluzionaria, benché ripetitiva, di quella antica.
Partiamo quindi per Kaesong, circa 150 km a sud, l’ultima città prima del 38° parallelo. L’autostrada è deserta, il viaggio non proprio piacevole perché la strada è tremendamente dissestata, nonostante centinaia di "volontari" si diano da fare per aggiustarla, fare e coprire buche nell’asfalto, togliere la polvere dal bordo strada (!!).
Kaesong sarebbe una città fantasma se non fosse per la poca gente che cammina per le strade: edifici vecchi di almeno 40 anni attorno alla collina che ospita la statua in rame, enorme, di… indovinate chi? Kim Il Sung. Impossibile non vederla, sia perché è su una collina, sia perché la strada che conduce a rendere omaggio al Grande Leader, è un ampio viale, lungo diversi chilometri e largo un centinaio di metri, che convoglia lo sguardo.
Raccattiamo all’angolo di una strada un generale (tutti i militari con almeno un etto di medaglie sul petto vengono chiamati "generali" dalle guide) che ci porta a visitare il Concrete Wall, un muro costruito dagli Americani che attraversa tutta la Penisola Coreana da Ovest a Est, costruito per evitare un attacco via terra da parte della Nord Corea. Ci sorbiamo la spiegazione da parte del militare di come è stato costruito, parole dure contro gli Americani, ripensando alla storia attuale mi viene da dargli ragione, è solo buon senso oppure sto kimilsungizzandomi?
Torniamo a Kaesong, lasciamo il Generale a casa e veniamo scaricati in hotel. Come il pullman entra nel parcheggio, il cancello si chiude alle nostre spalle, che rabbia, già pensavo di fare il giro dell’isolato!
Veniamo avvisati che questa sera, stranamente, c’è il black out: cena a lume di candela, doccia calda solo dalle 20 alle 20.30. Ci viene spiegato come un fatto assolutamente occasionale: facile, invece, che situazioni legate alla vicinanza alla zona di guerra facciano decidere per tenere la città al buio. La mancanza di acqua calda, beh, quello ci accorgeremo che fuori dall’hotel di Pyongyang è già un miracolo se abbiamo l’acqua fredda corrente.


Giovedì 13 aprile 2006


Mi sveglio con le ossa rotte e tutto sudato, dopo una notte di merda passata come una fetta di carne sulla brace: dormiamo infatti in un hotel tradizionale, senza letto, solo un materassino sul pavimento riscaldato.
Prima di visitare la DMZ (Zona demilitarizzata) facciamo un giro per Kaesong: omaggio a Kim Il Sung e vista dall’alto della collina della città vecchia, un agglomerato enorme di case ad un piano, i tetti grigi, strette stradine dove ogni tanto vedi passare qualcuno in bicicletta. Vista dall’alto, Kaesong Vecchia mi dà per la prima volta l’idea di essere in Oriente, troppo simile agli hutong cinesi. Basta alzare lo sguardo per vedere un’antenna altissima in cima alla collina, che serve per captare i segnali dalla Corea del Sud.
Ci dirigiamo, infine, verso la zona demilitarizzata, 8 chilometri a sud di Kaesong. Visitiamo prima Panmunjom, il villaggio dove si tenne l’armistizio del 1953 (la pace non è mai stata siglata), all’interno della DMZ, per arrivare poi sul confine vero e proprio. Vediamo a 20 metri da noi un gruppo di occidentali dalla parte sud- coreana che ci guardano. I militari sud- coreani guardano verso di noi, i nord- coreani pure. Chiedo al solito Generale che ci accompagna perché anche i Nord- Coreani guardano verso di noi, la risposta è "per proteggerci dall’esercito sud- coreano".
Lasciamo Panmunjom con la sensazione di aver visto un posto simbolo dell’ipocrisia umana, tutto può succedere ma nessuno fa nulla perché questo possa avvenire, in una zona di guerra regna una pace assoluta, non senti volare una mosca.
Lungo la strada di ritorno a Pyongyang, ci fermiamo alle Cascate di Puyon, dove mangiamo al sacco. Alte 37 metri, sono la prima attrattiva naturale di questo strano Paese. Rimango defilato dal gruppo che si arrampica per un sentiero sulla montagna che porta ad un monastero buddista, voglio starmene seduto sulle panchine di fronte la cascata a scrivere il mio diario di viaggio. Giro un po’ da solo, incontro un militare di nemmeno 18 anni cui chiedo delle notizie ma non capisce una parola, accetta solo una sigaretta, e torno alla cascata per incontrare la nostra seconda guida che, chissà come, era rimasta indietro a guardare le cascate!
Torniamo a Pyongyang e visitiamo il Museo della Guerra di Corea, una serie infinita di sale con fotografie, dipinti, cimeli di guerra che testimoniano gli orrori compiuti dagli Americani nella guerra del ‘50-’53. Ci fa da cicerone in questo museo gelido (ci saranno a stento 10 gradi) una soldatessa che ad un tratto ha una crisi di tosse dalla quale non sembra riuscire a riprendersi: TBC.
Continuiamo la visita in tema militare con la nave spia americana "Pueblo", catturata nel 1968 da soli 7 marinai nord- coreani contro 81 americani. Uno di questi 7 "eroi" adesso è capitano della nave, vive segregato su questa scatola metallica, vedrà qualche visitatore ogni morte di Leader, cui fa vedere un filmato noiosissimo sulla storia della nave. Mi diverto di più a guardare sprazzi di vita normale lungo il fiume Taedong: una barca con due pescatori, 3 vecchietti con la canna da pesca, una bambina in una tuta imbottita sul lungo- fiume.
Questa sera ceniamo in un ristorante per stranieri in una piazza: solo la piazza è illuminata, la via accanto è spenta. Ci rincuoriamo con la cena migliore mai avuta in Corea del Nord e torniamo al Yanggakdo con un po’ di vergogna.


Venerdì 14 aprile 2006


Ci mettiamo in marcia la mattina presto, appuntamento alle 8 ma gli ascensori del Yanggakdo Hotel rispecchiano la situazione del Paese, in ritardo, malfunzionanti, rigorosi nel loro fermarsi ad ogni piano anche se non ci sono turisti da accogliere, fanno slittare la partenza alle 9. Tappa Wonsan, il porto principale della Corea del Nord sul Mare del Giappone: ho chiesto io all’agenzia che ha organizzato il tour di inserire questa città, sia perché è un punto di passaggio obbligato per le Montagne Kumgang, "il paesaggio più spettacolare" della Corea del Nord come recita la Lonely Placet, sia perché così lontana da Pyongyang (200 km a est) permette di entrare in contatto, almeno così mi illudo, con i Coreani. L’autostrada è il solito tormento di buche, percorsi a zig- zag per evitare i lavoratori "volontari" che fanno e coprono buche, puliscono le pareti rocciose a fianco dell’autostrada. Per il pranzo ci fermiamo nella Cooperativa Eherit che alleva trote: inserita in un paesaggio color senape, riarso dal sole, è costituita da una serie di vasconi enormi divisi da muretti con pochi pesci che girano in tondo. "La rappresentazione di questo Popolo, tutti insieme nello stesso spazio che girano senza futuro, senza poter andare da nessuna parte" è il commento del mio compagno di viaggio Finlandese. Dopo il ottimo pranzo self- service sotto un tendone, ci dirigiamo nella Cooperative Society Chensam a breve distanza da Wonsan, una tipica fattoria collettiva sicuramente organizzata alla perfezione per i turisti: se questa è quella di rappresentanza, chissà le altre! Si entra pe un lungo viale polveroso, ben segnalato da due piloni all’ingresso, bianchi e rossi con scritte propagandistiche. Lo sguardo della gente è allucinato, rassegnato. Anche qui le contraddizioni che percepisci come più pesanti perché sulla pelle dei poveri cristi: un carro trascinato da un bue rinsecchito passa davanti a un monumento enorme con la foto dei due Leader; un camioncino che, causa la scarsità di combustibile, è convertito con un motore a carbone; campi bruciati dalla siccità e circondati da paletti di bambou con i drappi rossi del periodo della semina. La Cooperative Farm racchiude in sé un piccola città: la Sala dell’Assemblea che domina il centro dello spiazzo centrale, fatiscente e a pezzi, un nugolo di persone si prodiga a sistemarla; un gigantesco monumento di marmo ai Leader; una statua di 4 metri di Kim Il Sung sul punto più alto della fattoria; uno spaccio con poca mercanzia e una tabella con i prezzi imposti per il 2006; su un muro i diagrammi della produzione della Cooperativa si affiancano a slogan e murales propagandistici. Ci fanno visitare una casa, una piccola stanza fa da salotto, c’è una televisione ma per bellezza dal momento che non ci sono cavi, le immancabili fotografie dei due Leader appese sulla parete di fronte la finestra. Una stanza da letto per i due genitori e il bambino piccolo, una cucina con tre pentoloni su fuochi a legna. Il cesso, perché chiamarlo bagno è un offesa alle peggiori turche delle nostre stazioni, è fuori: un buco tra le assi di legno, in mezzo a un odore che non ho sentito nemmeno sulle barche che scendevano l’Irawaddy ad agosto.
Gli unici che si avvicinano a noi, senza venire a contatto ma come un gioco, nascondendosi dietro i tronchi degli alberi mentre camminiamo sono due bambini: gli adulti ci seguono con lo sguardo dai gradini della Sala dell’Assemblea. Strano, sul programma c’era scritto "Visita alla Cooperative Society Chensam, dove possiamo visitare le case degli agricoltori, parlare con gli agricoltori e avere l’opportunità di vedere l’agricoltura Coreana e l’allevamento del bestiamo in azione!". A proposito, di bestie nemmeno l’ombra…
Torniamo, anzi arriviamo a Wonsan, a metà pomeriggio: una "bella" città, sarà perché c’è il mare, sarà perché le strade sono piene di bambini che fanno le prove per la festa del giorno dopo. Le guide ci consentono di camminare per una ventina di minuti sul lungomare: i bambini ci seguono a frotte, ci fanno da ali, guardandoci incuriositi e sorridendoci. Ad un tratto compaiono delle persone vestite di scuro che urlano qualche cosa, i bambini si fermano all’improvviso, impauriti. Mi accorgo che sul bordo della strada un coreano ci sta riprendendo con una videocamera: magari è solo un turista cinese (la differenza dei tratti somatici a volte è appena percettibile), magari è la paranoia di essere costantemente inseguiti, magari ci stanno veramente riprendendo, comunque chi del nostro gruppo si è accorto di questa cosa sorride verso la telecamera facendo "ciao" con la mano.
Ci portano al Campo Estivo Internazionale dei Bambini, la classica colonia per studenti dove "tutto è costruito a misura di bambino secondo le indicazioni di Kim Il Sung in persona". Scale mobili (!!), un parco giochi vuoto con tanto di toboga e piscina vuota all’arrivo (vabbè, non è stagione, ci saranno al massimo 4 gradi ma non posso credere che questa gente possa anche solo divertirsi), la spiaggia è circondata da un muro di 3 metri. E ancora, una sala con tante televisioni e videogiochi ma vuota; una stanza con 6 letti singoli, un tavolino con un telefono: seguo con lo sguardo il cavo del telefono che finisce dietro una tenda, tranciato nella sua estremità. All’esterno un maestro sta facendo le prove di come portare il saluto l’indomani alla statua di Kim Il Sung, osservo per una decina di minuti sempre gli stessi passi, che devono essere coordinati, il braccio alzato con un acerta angolazione, ecc.
Arriviamo all’hotel Tongmyong, sulla spiaggia che però è chiusa da cancelli, freddo, gelido, senza luce. Solo le camere sono riscaldate, il pavimento è infuocato tanto che fai fatica a camminare a piedi scalzi, la luce dell’abat- jour va e viene a seconda del funzionamento del generatore elettrico.
Mangiamo in un’enorme sala ristorante, spoglia, un televisore contro una parete trasmette musica popolare: la luce è bassa ma soprattutto fa freddo, molto freddo, terribilmente freddo. Mangiamo con i cappotti, riuscendo a resistere un’oretta e mezza prima di rintanarci al caldo delle camere. L’acqua calda è solo tra le 20 e 20.30. Di ritorno in hotel mi diletto a vedere l’unico canale televisivo che sta trasmettendo una seduta del Parlamento: gremito in ogni ordine di posto, tutti perfettamente ordinati in platea, tre balconate anche queste piene, saranno in tutto mille persone. Dietro il tavolo della dirigenza il faccione enorme del Grande Leader, sorriso perfetto nonostante nelle fotografie abbia un dente scuro e un canino disallineato; la dirigenza è inquadrata solo da lontano mentre le inquadrature da vicino sono solo per l’auditorium. Gli applausi, brevi, 4 o 5 secondi, iniziano e finiscono tutti insieme; le uniche parole che capisco, anche perché ripetute spesso "Kim Il Sung" e "Juche".


Sabato 15 Aprile 2006


Oggi è il compleanno di Kim Il Sung, "Il Giorno del Sole" e se non fosse per aver visto le Cooperative, i lavoratori lungo le strade, Kaesong, sembrerebbe un Paese normale. In tutte le piazze, ovunque ci sia un’immagine del Grande Leader, ci sono lunghissime processioni di coreani, dal più piccolo al più anziano, che portano rispetto alla statua del Padre della Patria. File lunghissime, ben irreggimentate in blocchi di qualche centinaio di persone, avanzano a intervalli regolari verso il centro del monumento, si fermano, i civili si inchinano tre volte, i militari fanno il loro saluto, chi porta enormi composizioni floreali, chi semplicemente offre la propria presenza. I bambini, perfettamente istruiti su come rendere omaggio al Leader, hanno la divisa della scuola, gli adulti quella della festa: divisa per i militari, abito scuro (dalle scarpe alla camicia alla giacca con il collo alla coreana) con la cravatta per gli uomini, vestiti molto colorati anche se di un colore solo per le donne.
Torniamo a Pyongyang per recarci sul luogo di nascita di Kim Il Sung, Mangyongdae, una collina a 13 chilometri da Pyongyang, dove in una serie di capanne di fango con il tetto in paglia (le umili origini come Gesù Cristo) ha visto la luce il Grande Leader. Siamo all’interno di un parco, pieno di gente che approfitta della giornata di festa nazionale per fare un pic- nic, per andare sulle giostre del parco divertimenti accanto, semplicemente per una passagiata come il bambino mano nella mano con il padre, un’angosciante divisa militare con tanto di fondina con la pistola alla cintura. Le famiglie fanno la fila per farsi fotografare dal fotografo ufficiale davanti la casa natale: dai campioni esposti su un pannello noto che sono fotografie approssimative, orizzonti inclinati, persone che passano davanti, folle incredibili alle spalle che coprono l’oggetto più rappresentativo dello scatto. Soprattutto, nessun sorriso e una grande preparazione prima di mettersi in posa, con pettini e specchietti.
Dopo un pranzo anonimo in un ristorante anonimo, ci portano a vedere un’Esibizione Acrobatica Coreana in un teatro. Praticamente un odioso circo, con tanto di cavalli che corrono all’impazzata in un’arena di 20 metri di diametro, orsi vestiti da uomini. Carini gli sketch che sono comprensibili grazie alla gestualità e fanno ridere nonostante non si capisca una parola: il tema di fondo è sempre lo stesso, la Patria. Paradigmatico lo sketch di un marito che scappa dalla moglie dopo aver rubato i soldi della casa e si nasconde dall’amico parrucchiere. La moglie, dopo varie peripezie, fraintendimenti, lo scopre, botte che volano fino al perdono finale quando il marito rivela che aveva rubato i soldi della casa per darli al Partito.
Dopo un’ora di tortura circense, ci portano all’Esibizione Floreale dei Kimilsungia-Kimjongilia, le due varietà di begonie create e selezionate per rendere omaggio ai due Leader. In un edificio su due piani, ci sono centinaia di composizioni floreali di queste due varietà di begonie color rosso fuoco, presentate dall’Esercito, istituzioni nazionali, ministeri, amici stranieri e nord- coreani espatriati. Anche qui folle di gente in fila per farsi fotografare ora con questa ora con quella composizione, gruppi di miliari, alcuni non superano i 15 anni. La peculiarità di quest’esibizione floreale, sconvolgente, l’assoluta mancanza di odori o profumi: anche avvicinandomi ai fiori, non sono riuscito a captare il benché minimo profumo.
Ci rechiamo al negozio per i turisti internazionali (come se ci fosse un turismo interno), in una stradina secondaria del centro: la porta è chiusa, dobbiamo suonare e ci viene ad aprire una signorina. Dentro il nulla, qualche stampa, dipinto, oggettistica varia con un prezzo spropositato rispetto non solo al valore reale ma anche a ciò che potrebbero rappresentare. Chi pagherebbe 15 euro per un grembiule da cucina con la penisola coreana?
Sul far della sera ci fermiamo in una piazza a vedere le danze per la festa nazionale. Inizialmente avremmo dovuto partecipare a quella in Piazza Kim Il Sung, probabilmente per motivi interni coreani, veniamo relegati in una piazza secondaria, di fronte l’Ice Rink, uno stadio del ghiaccio a forma di cono gelato.
E’ l’imbrunire ma i colori delle centinaia di persone in abiti tradizionali non sono certo meno impressionanti, anche qui organizzati in blocchi. Seduti per terra, ascoltano il discorso di un funzionario di partito in piedi davanti un edificio, la voce metallica distribuita da un pulmino con gli altoparlanti sul tetto. Finito il discorso parte la musica, sempre dagli altoparlanti mobili, e la gente inizia a danzare, ognuno all’interno del proprio blocco, sorridendo e ridendo di gusto. Tutto intorno alla piazza una decina di uomini vestiti di nero che controllano, sarà paranoia?
Qualcuno del nostro gruppo si unisce ai coreani che ballano, anche questo è previsto dal rigido protocollo del nostro viaggio. E’ ormai buio e, dopo la cena in un ristorante dove proviamo per la prima volta una zuppa di noodle fredda con pollo, senape e aceto (per niente male) torniamo in hotel attraversando una Pyongyang finalmente illuminata, almeno per quanto riguarda le strade e gli edifici pubblici, anche se qualche luce in più si nota anche negli immensi edifici popolari più simili ad alveari che a case.


Domenica 16 Aprile 2006.


Il Mausoleo di Kim Il Sung è il vecchio palazzo dove ha abitato il Grande Leader che è stato trasformato in simbolo pagano, anzi di fede, dal Popolo Nord- Coreano nel giro di un anno dalla sua morte, il 7 luglio 1994. E’ forse l’edificio, il monumento più tragico e allucinante che la mente umana possa aver partorito, migliaia di tonnellate di marmo e granito per proteggere e custodire la salma imbalsamata di Kim Il Sung.
Una coda chilometrica e silenziosa rimane in attesa di entrare, la gente vestita in maniera impeccabile, lo sguardo ostile. All’interno veniamo spogliati di tutto, chewing- gum compresi, ottengo a stento di poter tenere nella tasca dei pantaloni il passaporto, veniamo bombardati di raggi-X attraverso un corridoio di 3- 4 metri circondato da schermi neri: dall’altra parte dei solerti uomini della sicurezza staranno contando quante ossa abbiamo in corpo e cosa abbiamo nello stomaco. Non è possibile camminare, un lunghissimo tapis- roulant, lungo circa 1 chilometro, impiega 20 minuti per portare dal check- in all’ingresso del mausoleo vero e proprio. Lungo tutto il tragitto, complice la lentezza del nastro trasportatore, il marmo che dà un’aria asettica all’ambiente, si viene pian piano iniziati all’incontro con il Grande Leader, attraverso delle vetrate che danno sulla facciata nord del immenso sarcofago. Mi viene da pensare a un film in cui noi siamo carne che alimenta un enorme tritatutto, non so come mai ma ho questa impressione.
Arriviamo finalmente nel mausoleo. La prima sala dà subito l’idea del posto in cui siamo capitati: una stanza lunga 30 metri, larga una ventina e alta altrettanto, una musica funebre in sottofondo, dall’altra parte una gigantesca statua di Kim Il Sung che ti accoglie. Lo sfondo è indistinto, non è a fuoco, colori pastello dal rosa in basso che sfuma nell’azzurro in alto, non ben definiti alterano la profondità di campo, sembra di essere in un non- luogo, noi piccolissimi in un ambiente sovrastato dalla statua del Grande Leader. Pian piano ci avviciniamo alla statua anche perché l’ingresso alla stanza con il Corpo è alla sinistra di Kim Il Sung.
Prima di entrare nella stanza funebre passiamo attraverso delle porte a vetri con dei getti di aria fredda che servono a "pulirci" dalle impurità, per non contaminare il cadavere, e dobbiamo camminare su un tappetino impregnato di disinfettante. Entriamo finalmente nella sala dove c’è il corpo, in una teca di vetro, circondato da soldati armati. A gruppi di 5, con almeno un coreano nel gruppo che detta i tempi per gli inchini, giriamo intorno al sarcofago, bisognerebbe fare i 3 inchini di rito ma proprio non ce la faccio, rimango in piedi a guardare in faccia gli altri coreani che piangono, non so se sinceramente o sono lacrime comandate.
Ci rechiamo nella sala accanto, dove ci sono tutte le onoreficienze ricevute dal Grande Leader, comprese le cittadinanze onorarie di diverse città italiane: Sarzana, Magenta, Mondovì, San Giorgio a Cremano, queste quelle che mi ricordo, anche se al momento avevo cercato di ricordarmele tutte per poi scrivere una lettera ai rispettivi sindaci. Voglio sperare nella buona fede del momento in cui sono state assegnate, sarebbe come se il sindaco di Bergamo avesse assegnato la Cittadinanza onoraria a Hitler benché a conoscenza di Auschwitz.
C’è anche la "stanza del dolore", dove delle donne in abiti tradizionali spiegano il significato di enormi bassorilievi raffiguranti il popolo coreano che si dispera per la morte del Grande Leader. Le "Ciceronesse" stesse singhiozzano e fanno scene da operetta mentre illustrano il significato delle sculture.
Finalmente usciamo da questo "buco nero", che assorbe qualunque energia, per recarci al Cimitero dei Martiri Rivoluzionari sul Monte Taesong, una collina a nord del centro. E’ il mausoleo che ricorda i soldati morti per liberare il Paese dai Giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Una scalinata di 300 gradini, tutti in granito, termina davanti un monumento su cui una frase di Kim Il Sung, ricorda la gesta dei martiri. Ai lati della scalinata centinaia di busti a grandezza naturale, ricordano e commemorano i morti. Merita una visita solo per il panorama mozzafiato di Pyongyang che si osserva dalla cima della scalinata.
Per stemperare la tensione accumulata ci portano al parco divertimenti di Taesongsan, un’oasi di apparente normalità se non fosse per i militari armati di mitra che camminano come niente fosse tra le famiglie e i bambini. Facciamo un giro sulle Montagne Russe, enormi, gigantesche, i vagoncini senza il benché minimo dispositivo di sicurezza. E’ bello vedere la gente che urla per l’adrenalina della discesa, che grida felice agitando le braccia, momenti di assoluta normalità, insomma, potrei essere a Gardaland ma sono in Corea del Nord.
Continuiamo il giro dei Monumenti Rivoluzionari: il Monumento alla Vittoria della Guerra di Liberazione dell Madrepatria, cioè nella guerra contro gli Americani dal 1959 al 1953. E’ spiazzo lungo qualche centinaio di metri, circondato da statue rappresentanti vari corpi militari impegnati nella guerra, proprio sotto il Ryugyong Hotel, che finalmente riesco a fotografare da vicino, dopo giorni e giorni di richieste che la guida Pak è sempre riuscito a eludere: uno smacco per il popolo coreano che non è riuscito a terminare il mostro di oltre 30 metri, a forma di piramide, su cui centinaia di architetti del mondo stanno studiando il modo di riconvertirlo, sempre che il regime permetta di fare qualcosa.
Arriviamo, prima di pranzo, all’Arco di Trionfo, un’unica struttura di granito alta 60 metri, "qualche metro in più di quello di Parigi" come amano ripetere i Coreani: sorge nel punto in cui Kim Il Sung dichiarò la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Nella piazza accanto, di fronte allo Stadio Kim Il Sung, ci sono bambini che giocano con gli aquiloni e con i Rollerblade. Tutto normale, insomma…
Dopo un pranzo anonimo, sarà che dopo la mattina al Mausoleo di Kim Il Sung mi è passata la fame, andiamo alla Libreria Internazionale, dietro piazza Kim Il Sung: i libri sono tutti uguali, gli stessi che trovi negli hotel, ad un prezzo inferiore: tutta l’opera filosofico- politica di Kim Il Sung, oltre 50 volumi, la rivisitazione da parte del figlio, le biografie di entrambi, più o meno condensate, vari scritti politici sulla storia internazionale attuale ("la politica imperialista degli USA", "violazione dei diritti umani in Corea del Sud", "lo stato terroristico degli USA", ecc.), libri di favole con Kim Il Sung protagonista, CD di karaoke, tutta la saga cinematografica sulla liberazione del Giappone, spilline, ecc. I prezzi sono imposti dal Governo ma, da bravo italiano, riesco a ottenere ben 5 euro di sconto su un acquisto di 85 !
Torniamo in hotel per preparare i bagagli, ceniamo in un ristorante in centro (siamo sempre e comunque solo noi del gruppo) dove nessuno ha voglia di parlare, e terminiamo la serata nel Ristorante Ruotante in cima al nostro hotel, in mezzo a Vodka e birra con un cinese di Shangai e cercando di coinvolgere nell’euforia la cameriera coreana.


Lunedì 17 aprile 2006


Si torna in un Paese libero: la Cina!
Il giorno del rientro in treno a Pechino ci svegliamo con una nevicata su Pyongyang.
Il treno per Pechino parte puntuale alle 10.10 dalla Stazione Centrale: Pak e Mr. O ci accompagnano fino sulla carrozza e si accertano che ciascuno di noi sia sul treno quando questo si mette in moto. Ci salutiamo con un abbraccio, debole quello che ricevo da Mr. O, più sentito quello di Pak: entrambi sono sorridenti, forse sono sollevati dal fatto che non hanno avuto il minimo problema con noi. Sul treno siamo di nuovo in gabbia. Le ultime due carrozze sono quelle internazionali, arrivano a Pechino e sono isolate dal resto del treno, chiuse a chiave. Il treno fa 5 o 6 fermate prima di arrivare al confine con la Cina ma le porte della nostra carrozza è rigorosamente chiusa, dobbiamo chiudere anche i finestrini che comunque non sono del tipo a discesa ma una specie di lunotto che si apre di pochi gradi in cima al vetro. IL pranzo stesso dobbiamo ordinarlo al capotreno che ce lo fa recapitare da un inserviente, nonostante ci sia la carrozza ristorante. Dai finestrini vediamo le solite scene cui non riusciamo ancora ad abituarci, campi riarsi dalla siccità, gli sguardi delle persone che abbandonano qualunque attività mentre passa il treno, sorta di casellanti che si piazzano in mezzo alla strada perché non c’è il passaggio a livello.
Dopo 227 km, oltre 6 ore, alla media di 40 km/h arriviamo a Sinuiju, ultimo avamposto di questo regime dittatoriale prima della libertà, la città di Dandong sull’altra sponta del fiume Yalu. Le procedure doganali sono lunghe e complesse, quasi che abbiano più paura di quello che portiamo fuori rispetto a quanto possiamo portare in Corea del Nord. Un piccolo incidente diplomatico, nessuno dei militari deputati ai controlli sanno che paese sia la Finlandia, ci areniamo per una mezz’ora buona nel far capire ai militari, a gesti, con i disegni, dive sia la Finlandia. "Pinla-du…" continua a ripetere il giovane soldato, guardando in alto come se stesse scavando nella memoria alla ricerca di questo paese . Mi ricordo che ho comprato una cartina del mondo "Corea- centrica", cioè con la Penisola coreana al centro: la tiro fuori ed ecco che tutto si sistema "Ahhh… Pinla- du!", i militari riescono a collocare geograficamente questi suoni strani che uscivano dalle nostre bocche.
Arriva il mio turno, devo entrare nello scompartimento e aprire tutti i bagagli. Alla fine, il militare giovane mi dice una cosa che mi lascia perplesso: "I m sorry".
Dopo il controllo possiamo scendere nella stazione, entriamo in uno stanzone freddo che sarebbe la sala d’aspetto, sporca, buia, fredda, un bancone vende delle bottigliette d’acqua, delle cartoline e qualche birra.
Finalmente si attraversa il confine, dal ponte sul fiume Yalu si vede il vecchio ponte distrutto dagli Americani nel 1950: la metà cinese ormai è stata ricostruita, quella coreana ha solo i piloni che spuntano dall’acqua.
La spiaggia di Sinuiju sulla riva dello Yalu ospita un parco giochi con tanto di ruota panoramica, disabitata, probabilmente è vietato l’accesso per non far vedere l’opulenza e lo scintillio dei grattacieli che sono sorti sulla sponda cinese, a meno di 500 metri dal futuro. Finalmente arriviamo a Dandone, un’esplosione di luci, merci di tutti i tipi, casinò, grandi magazzini. Sembra di essere avanti 100 anni, ma siamo a soli 500 metri di distanza dall’incubo.

Max Lombardo

mercoledì 1 febbraio 2006

ITINERARIO DI VIAGGIO E CONSIGLI PER IL MYANMAR


CONSIGLI

· NON CAMBIATE SOLDI IN AEREOPORTO!!! Il tasso applicato è quello governativo, circa 1/4 di quanto riuscirete ad ottenere dei cambiavalute in città.

· Organizzate un itinerario di massima e fatevi prenotare alberghi e, soprattutto, aerei da un agenzia del posto, di Yangon: riuscirete a spuntare un buon 30% sul prezzo degli alberghi e circa la metà sul costo del volo aereo. Volendo fare tutto da soli spenderete di più. Noi abbiamo detto al nostro amico i nostri gusti in fatto di alberghi, le date indicative e, di volta in volta, tramite fax chiedevamo di aumentare 1 notte in questo o quell'hotel. Stessa cosa per gli aerei. Io consiglio Peace House Travel, agenzia piena di giovani e con un buon rapporto qualità/ prezzo (vedi www.unviaggiatoremidisse.it/link).
· Ho utilizzato la guida Lonely Planet per un progetto di massima: parlate con la gente, fatevi consigliare posti dove mangiare, cosa vedere, per uscire dal percorso più battuto, per vedere posti incantevoli non segnalati. Per i ristoranti siamo andati "a naso", solo posti frequentati dalla gente del posto, con l'unica accortezza di entrare dove c'era tanta gente.
· Utilizzate gli aerei per gli spostamenti interni: è vero che in autobus o auto si vive di più la realtà del posto, ma quando impiegate 8 ore spendendo 35 dollari per un tragitto di 120 chilometri, contro 30 minuti e 35-40 dollari, forse inizierete a cercare le comodità, soprattutto se il tempo a disposizione è poco.
· Ho volato con Air Mandalay e Air Bagan, evitando bene la compagnia di bandiera starale (Myanmar Airways) per questioni etiche e se tenete alla vostra vita.
· Se un taxista vi sconsiglia un hotel, non necessariamente lo fa perchè ha guadagna nel portavi in un altro: probabilmente lo fa perchè è gestito dallo stato.
· Rifiutate l'embargo turistico, in questo modo togliete la maggiore fonte di reddito per la popolazione birmana. Evitate però tutto ciò che è gestito dallo stato (nei limiti del possibile).
· Parlate con la gente, evitando la politica almeno in prima battuta. Entrando in confidenza potrete parlare di tutto.

COSTI

· Il volo incide per quasi il 50%, circa 930 euro andata e ritorno con volo Roma- Bangkok- Yangon;
· in un hotel di buona qualità (paragonabile ad un nostro 3 stelle), una doppia pulita con bagno in camera e colazione (sontuosa!!) costa dai 25 ai 35 dollari;
· per mangiare bene (BENE!!) e uscire sazi nei ristoranti frequentati dalla gente del posto si spende circa tra 1 e 2 dollari a testa (a Mandalay siamo riusciti a mangiare divinamente per 1 dollaro in due);
· una corsa media in taxi, da un punto all'altro della città, circa tra 1 e 2 dollari;
· contrattate, contrattate, contrattate, senza dimenticare che a noi 1 dollaro non cambia la vita, in Myanmar permette di vivere!


25 luglio 2005 YANGON

Arrivo in mattinata via Bangkok con volo Thai Airways. Ci viene a prendere Frankie, dell'agenzia Peace House Travel, che abbiamo contattato dall'Italia per organizzare insieme l'escursione nel Kachin State. Giriamo a caso per Yangon. Cena offerta da Peace House Travel con Frankie in un ristorante per turisti, con spettacolo di danza tradizionale birmana e gruppone di italiani con videocamera, macchine digitali e pantaloni di cotone, camicia Ralph Lauren e maglione buttato sulle spalle. Impongo a Frankie di non far capire che siamo italiani!! Da quella sera ci porterà solo in ristoranti del posto, dove il menù, se c'è, è rigorosamente birmano e dove un turista medio non si sognerebbe mai di entrare. Pernottamento al Grand Plaza Park Royal, ottimo 4 stelle dietro il Bogyoke Aung San Market (90$, ma l'agenzia ha voluto fare bella figura).
26 luglio MYINTKYINA

Trasferimento in mattinata con volo aereo Air Bagan via Mandalay, tre ore in tutto. Arrivo in tarda mattinata. In moto alle sorgenti dell'Ayeyarwaddy, poi visitiamo la Hsu Taung Pye Zedidaw, un'esplosione di colori all'ingresso, un grande mappamondo circondato da statue di monaci con il contenitore delle offerte. Cena al River View Restaurant, con tanto di vista fiume. Pernottamento al Pantsun Hotel, unico hotel di Myintkyina, vicino ad un Internet Point (connessione a 34 kbs, solo 2 linee in tutto il paese, vietati i siti Yahoo, Google, ecc.).
27 luglio BANMAW (BHAMO)

Trasferimento in auto lungo la Ledo- Burma Road, circa 6 ore e mezzo per un centinaio di miglia d'inferno (75 $). Arrivo a Banmaw nel pomeriggio. Ottima cena al Sein Sein Restaurant, di fronte al cinema in Strand Road. Pernottamento Friendship Hotel, buon hotel in stile cinese, camere enormi e pulite.

28 luglio BANMAW
Andiamo a trovare U Sein Win, la "guida" del paese a casa e con lui visitiamo la Nyaung Pin Yat Pre- School di Banmaw (un asilo fino ai 4 anni). In barca ci dirigiamo circa 7 miglia a nord- ovest di Banmaw a Thein Phar Hill, un monastero buddhista per monaci e monache, un oasi di pace e tranquillità. Parliamo piacevolmente con la monaca per un'oretta, prima di tornare in paese. Cena ancora al Sein Sein Restaurant. Pernottamento Friendship Hotel.
29 luglio DISCESA AYEYARWADDY

Partenza alle 7.00 con la motonave dell'Inland Water Transport, destinazione Mandalay. Vale l'escursione nel Kachin State il tratto di fiume tra Banmaw e Shwegu, 1 ora di traversata in mezzo alle gole. Pernottamento sulla nave ($ 54 a testa la cabina doppia di prima classe, l'unica a poter ospitare gli stranieri. Il bagno è in comune ogni 4 cabine).
30 luglio MANDALAY

Arrivo a Mandalay alle 9.45 dopo quasi 27 ore di viaggio. Visita Kyauktawgyi Paya, Sandamani Paya, Atumashi Kyaung e Shwenandaw Kyaung, luoghi sacri ai piedi della Mandalay Hill. Cena in un ristorante anonimo gestito da cinesi con dei noodle favolosi (1 $ in due), dove sarebbe dovuto esserci il Lashio Gyi Restaurant. Pernottamento al Mandalay City Hotel (30 $ la doppia, ottimo hotel a 10 minuti di bicicletta dalla Mandalay Hill).
31 luglio CITTA' IMPERIALI: SAGAING, INWA E AMARAPURA

Escursione in taxi (circa 10 $ per tutto il giorno) alle Città Imperiali. Nell'ordine Sagaing, 20 km a sud- ovest di Mandalay e la sua collina da cui si dominano tutte le città imperiali. Attraversiamo l'Ayeyarwaddy con una barca per vedere Inwa, Ava nell'antichità, città assolutamente imperdibile da visitare con uno dei tanti calesse presenti all'attracco. Ultima città, Amarapura, con il suo lunghissimo ponte in teak (oltre un chilometro). Per l'accesso alla zona archeologica di Mandalay, Inwa, Amarapura, si paga un unico biglietto di 10 $, per Sagaing e Mingun 3$. Cena al Mann Restaurant, così pieno di stranieri che è meglio evitarlo a meno che non si vogliano scambiare consigli di viaggio. Pernottamento al Mandalay City Hotel.
01 agosto CITTA' IMPERIALI: MINGUN. MANDALAY

Prendiamo un battello (circa 3$, 1 ora all'andata e 45 minuti al ritorno) per andare a Mingun, sicuramente la più bella tra le città imperiali con la sua incompiuta Mingun Paya, un gigantesco cubo rosso con una porta bianca frontale. Torniamo nel primo pomeriggio a Mandalay pee il tour de force finale, peccato abbiamo l'aereo prenotato per il giorno dopo, per gustarsi con calma Mandalay servono 2-3 giorni pieni. Visitiamo la Mahamuni Paya con il suo Buddha ricoperto da 15 cm di foglie d'oro; il Palazzo Reale (bello perchè siamo gli unici, altrimenti più interessante la vista dall'alto della Mandalay Hill che il suo interno tutto ricostruito); la Kuthodaw Paya, il libro più grande del mondo (attenzione a non confonderla con la Paya accanto, la Sandamani Paya, a mio parere più d'effetto); la Mandalay Hill: 951 scalini, 40 minuti di sudore per arrivare in cima passando per diverse Paya intermedie: imperdibile la vista dalla sommità. Evitate di prendere l'ascensore che sale dal lato est e che vi porta in un attimo in cima, il bello è proprio salire pian piano.
Cena al ristorante accanto al Lashio Gyi. Pernottamento al Mandalay City Hotel.
02 agosto LAGO INLE

Alle 9 prendiamo l'aereo che in 25 minuti ci porterà a Heho (32$ a persona), l'aereoporto più vicino al Lago Inle, nello Stato Shan: sono un centinaio di chilometri che in auto verrebbero coperti in oltre 7 ore per una spesa di poco inferiore. Da Heho a Nyaungswe, il villaggio a nord più vicino al Lago Inle, 1 ora di taxi (circa 15$). Il villaggio è costituito da due strade che si incrociano, stile Far West. Il soggiorno al Lago Inle è soggetto ad una tassa di 3$ a persona.Ceniamo al Golden Kite, che si spaccia come il ristorante birmano che cucina i migliori piatti italiani in Myanmar: sicuramente merita, non abbiamo provato le pizze che il proprietario birmano ci ha pregato di provare per dargli consigli, avendo messo il forno da pochi giorni. Pernottamento all'Inle Regal Resort, 15 minuti di barca a motore da Nyaungswe, un albergo sul lago costituito da splendide palafitte in legno molto curate e spaziose (40$ la doppia). 2 pecche: quando siamo stati noi era in ristrutturazione, quindi falegnami ovunque; per andare in paese bisogna prendere affittare una barca (circa 4$ a tratta).
03 agosto LAGO INLE

Gita sul Lago Inle (10$ circa per la barca che porta in giro solo noi due dalle 8 alle 16). Personalmente, non ho un buon ricordo del Lago Inle, troppo turistico, la barca fa la spola tra un villaggio e l'altro lasciandoti davanti alle fabbriche di seta, cheerot, ferro battuto, con tanto di lavoratori in posa per le fotografie di rito. Troppi turisti, troppo turistico, poca spontaneità nei posti incontrati. Si salva solo la visita del villaggio in cui si tiene il mercato (la sede cambia ogni giorno con una periodicità di 5 giorni) e girare tra le lagune del lago, costeggiando le case, i monasteri e i ristoranti costruiti sull'acqua. Ceniamo a Nyaungswe al Hu Pin Restaurant, migliore ristorante cinese del posto, effettivamente buono. Non cercate il tanto reclamizzato Big Drum Restaurant, perdete solo 30 minuti di cammino per trovarvi davanti l'insegna che penzola da un palo. Pernottamento all'Inle Regal Resort.
CONSIGLIO: se pernottate sul lago e non volete farvi derubare dalla barca dell'hotel, contattate una delle tante agenzie vicino al canale che porta sul lago Inle. Attenzione però a rispettare l'orario che stabilite. A noi è capitato, dopo cena, di tardare di 10 minuti e abbiamo trovato l'agenzia chiusa. Spiegazione: non ci hanno visto arrivare e sono andati a mangiare. Peccato che stava facendo buio. Il risultato è che abbiamo fatto la traversata del lago completamente al buio, senza nemmeno una torcia elettrica, fidandoci esclusivamente dei sensi del barcaiolo. Molto emozionante, a meno che soffriate di claustrofobia (provate a stare in mezzo all'acqua con il buio più profondo che possiate mai vivere, senza luna nè stelle!!) o di attacchi di panico.
04 agosto TRASFERIMENTO LAGO INLE- BAGAN

Giornata persa nel trasferimento dal Lago Inle a Bagan. L'aereo della mattina è stato spostato al pomeriggio e atterrerà a Mandalay. Dovremo attendere 3 ore per prendere un altro aereo che ci porterà a Bagan (25 minuti circa). Costo totale 48$ a persona. Trasferimento aereoporto- hotel in taxi (circa 3-4 $). Pernottamento al Bagan Thande Hotel, meraviglioso hotel in Old Bagan, in mezzo ai templi, al modico costo di 25$ il bungalow doppio. Splendida la vista dei bungalow de- luxe (costo di circa 70-80$) sull'Ayeyarwaddy .
05 agosto BAGAN

I templi del sito archeologico (10$ la tassa da pagare) di Bagan sono divisi in tre località: Old Bagan, New Bagan e Nyaung U. Il massimo è affittare una bicicletta (1,5 $ al giorno) per godere della piena libertà: le distanze non sono proibitive (30 minuti di pedalata lenta tra Old Bagan e New Bagan, altrettanti tra Old Bagan e Nyaung U. L'unica fatica sono i falsi piani e il caldo mortale di agosto!!), il panorama mozzafiato. A Old Bagan visitiamo il Thatbyinnyu Pahto, il più alto e, tutto sommato, il meno interessante. Sicuramente migliore l'Ananda Pahto, il più bello e meglio conservato. Sulla strada che porta a sud verso New Bagan ci sono il Dhammayangyi Pahto, il più grande, e nel villaggio di Myinkaba, a metà strada, la Manuha Paya, che da sola merita la visita per i 2 enormi Buddha contenuti in stanze piccolissime, per dare un senso di prigionia tale e quale quella provata dal re che la fece costruire dopo essere stato liberato dai carcerieri. Il paese di New Bagan merita una visita per i negozi di lacche, in particolare U Ba Nyein, per il resto non ci sono templi. Il tramonto lo vediamo dalla Minyengu Paya, in Old Bagan: chiedendo negli hotel vi diranno che non si può accedere alle terrazze più alte dei templi perché sono chiuse per sicurezza, ma avvicinate un guidatore di calesse o uno dei tanti ragazzini che vendono souvenir per farvi dire quale è aperto. Gustiamo una maestosa cena birmana (oltre 10 portate per meno di 5 $ in due al Win Thein Gi Restaurant, poco fuori le mura di Old Bagan. Per tornare in hotel dopo il tramonto, munitevi di torce elettriche: non esistono lampioni e la strada è molto trafficata. Pernottamento al Bagan Thande Hotel.

06 agosto MONTE POPA

Oggi escursione al Monte Popa in taxi (20 $, 1 ora e mezza), attraverso una piana desertica puntella ta qua e là da macchie di vegetazione, palme da zucchero, soprattutto (ogni taxi si ferma presso una delle tante fabbriche di zucchero sulla strada). Il Monte Popa è un vulcano spento cui sembra sia stata tagliata la sommità: in cima è sorto un agglomerato di templi e paya. Per accedervi ci si arrampica per 20 minuti su una scalinata, ben più ripida di quella della Mandalay Hill. Oltre al simpatico villaggio sorto alla base del vulcano, ciò che caratterizza il Monte Popa è la quantità di scimmie che girano liberamente per la scalinata e che fanno da padrone, avvicinandosi, tirandoti i pantaloni per avere da mangiare. Se diventano moleste, guardatele negli occhi e sfidatele, ma non siate violenti, se non volete trovarvi sommersi da decine di scimmie dalle intenzioni bellicose. Come anche alla Mandalay Hill, il bello è nell'ascesa alla sommità: in cima si trovano le solite paya anche se, qui, grande spazio è dato ai Nat, gli "spiriti" della tradizione buddhista. Nel pomeriggio relax in piscina, immersa tra i templi di Old Bagan, dove tiriamo fino a tardi. Imperdibile il tramonto sull'Ayeyarwaddy. Questa sera cena al Sarabha Restaurant, turistico (ci sono le tovaliette di stoffa). Pernottamento al Bagan Thande Hotel.

07 agosto BAGAN

Di tutti i templi verso Nyaung U (e probabilmente di Bagan), il più bello è sicuramente la Swezigon Paya, un cono color oro e rosso. Per gli amanti dell'arte antica, accanto a questa paya c'è il Kyanzittha Umin, tempio buio con dipinti murali dei Tartari, risalenti a oltre 800 anni fa. Merita una visita anche Nyaung U, piena di ristoranti occidentali (fanno bella mostra di sè le insegne che reclamizzano ravioli, pizza e fettuccine). Il mercato è il solito delirio di gente, mercanzia di poco valore (per noi, purtroppo, per queste persone con un dollaro dano da mangiare per un giorno all'intera famiglia!) e cibo venduto senza le più elementari norme igieniche. Cercate bene sulla strada che dal mercato porta alla Swezigon Paya e troverete l'insegna della "National League for Democracy", dietro un cancello arrugginito chiuso da un lucchetto e coperto da una vegetazione ormai incolta (l'unica altra sede l'ho vista a Banmaw, e anche qui era chiusa e mezza diroccata). Sulla strada del ritorno si vede l'Htilominlo Pahto, interessante solo per la sua maestosità. Cena al Mi San Restaurant, subito fuori la porta di Old Bagan, forse il peggiore in cui abbiamo mangiato fin'ora, il cibo non sa di nulla ma i camerieri sono molto gentili (forse perchè sono Birmani e non Cinesi?). Pernottamento al Bagan Thande Hotel.
PS: a proposito di politica: vedrete in giro per Bagan un fuoristrada Toyota nero, immenso con i vetri oscurati. Dovrebbe essere del figlio di un generalissimo del governo Birmano. Sembra che abbia interessi commerciali nella zona (la Torre Panoramica a Nyaung U? Il Golf?)

08 agosto YANGON

Torniamo a Yangon in aereo (1 ora circa, 68$) e ci facciamo portare in hotel da un taxi (5$), il Panorama Hotel. L'hotel è un edificio di 13 piani a 5 minuti dalla Sule Paya e dietro Sule Paya Road, la hall ampia e luminosa. In generale l'hotel è ben tenuto, le stanze vecchie ma pulite: unico neo il cavalcavia che passa attaccato all'hotel, ma la camera è ai piani alti non è un grosso problema. Ci rivediamo con Frankie e organizziamo le nostre serate di Yangon. E' bello girare senza una meta fissa per la "downtown" di Yangon: L il mercato, le vie attorno alla Sule Paya, la Strand Road. Il mercato principale, Bogyoke Aung San Market (soprannominato Scott Market o Bogyo Market, si pronuncia Bugiu) è chiamato, dalla gente di Yangon, il mercato "lazzarone"perchè le bancarelle sono di commercianti ricchi, aprono tardi e chiudono presto (quelle dell'oro e delle pietre preziose iniziano a chiudere alle 13!). E' comunque molto grande e interessante, soprattutto merita una visita e un acquisto la zona delle pietre preziose e degli arazzi. Addentandosi nelle stradine che dal Bogyo Market si dirigono a sud verso il fiume, si passa da una via piena di boutique, con prezzi accessibili solo per i corrotti militari al governo e il loro entourage di parenti e amici, gli unici ad arricchirsi, alla vera Yangon: palazzi coloniali color pastello, giallo, verde, azzurro, con la facciata piena di rampicanti, colori smorti, anneriti dallo smog e scoloriti dalla muffa e dal tempo. La Sule Paya, punto di riferimento per il calcolo delle distanze in Myanmar, è ormai circondata da un nugolo di bancarelle e da due piani di negozi. Proseguendo verso il fiume, c'è il Mahabandoola Garden con il Monumento all'Indipendenza, di fronte un meraviglioso edificio rosso, con grosse crepe e piante che crescono dalle fenditure: una torre con l'orologio (fermo): è la Corte Suprema di Giustizia. Questa è la zona dei cambiavalute al mercato nero, non dovete cercarli ma saranno loro ad avvicinarsi, anzi è impossibile evitarli tanti quanti sono. Si riescono a spuntare cambi vantaggiosi, comunque non è nemmeno da prendere in considerazione di cambiare i dollari nei cambiavalute governativi, visto che il tasso di conversione è quasi 1/4 di quello corrente al mercato nero. Ceniamo al 999 Shan Noodle Restaurant, a est della Sule Paya, un locale decrepito con 5 tavoloni e la proprietaria che snocciola il rosario buddhista dietro la cassa: favolosi i tofu fritti e i noodle. Pernottamento al Panorama Hotel.

09 agosto YANGON

La Shwedagon Paya, il centro religioso Buddhista più importante del Myanmar, è uno di quei posti in cui non ti accorgi del passare del tempo, tanto sei rapito dalla bellezza, dalla maestosità e dalla pace che si respira, nonostante il brulicare di gente. Bisogna mettere in conto almeno mezza giornata per poter godere di ogni suo angolo. Accanto alla Shwedagon Paya, attraversando la strada, c'è la maha Wizaya Paya, simile alla precedente per forma esterna ma all'interno è completamente spoglia: è stata costruita con i soldi delle donazioni dei cittadini. Vicino al Bogyo Market c'è il mercato per la gente comune, il vero mercato degli abitanti di Yangon, il Theingyi Zei, più grande, con meno negozi di gioielli e di articoli di valore. Giriamo ancora per la "downtown", un quadrilatero compreso tra Bogyoke Aung San Road a nord, Shwedagon Paya Road a ovest, Merchant Streat e Strand Road a sud e Bo Aung Gyaw a est. Fate un salto all'hotel Strand, sul lungo fiume, noterete un edificio bianco, ristrutturato e tinteggiato da poco con il marciapiedi nuovo tutto intorno e berline posteggiate all'esterno, in aperto contrasto con gli edifici dalle facciate cadenti e i marciapiedi che sono delle trappole, tipici della città. Cena a Chinatown, nei quartieri a est del centro, pieno di ristorantini che fanno piatti al barbeque, passione dei Birmani. Una meraviglia e una cena meravigliosa al Win Restaurant, dove festeggiamo l'incontro con Frankie mangiando a più non posso e scolandoci 15 birre medie, l'ottima Myanmar Beer: spendiamo l'esorbitante cifra di 7 dollari! Pernottamento al Panorama Hotel.

10 agosto YANGON

Oggi sembra di aver buttato via la giornata, sarà per la pioggia che non dà tregua fino a pomeriggio tardi, sarà che il nostro programma ci porta a visitare luoghi di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il Myanma Gems Museum, il Museo delle Gemme a nord di Yangon, può essere interessante solo per gli appassionati delle gemme e se fosse gratis, ma visti i 5 dollari spesi c'è da mangiarsi le mani. I banchettini posti al primo e secondo piano vendono gemme e sono autorizzati dal governo, ma i prodotti non sembrano di buona qualità, almeno ad un occhio profano. Meglio la qualità del Bogyo Market. Accanto al Museo c'è un edficio dove avvengono gli scambi delle gemme, questo è un pò più interessante, almeno fare un giro nel cortile esterno dove si vedono mucchi di pietre con il relativo peso e prezzo. Funziona come un'asta, vengono fatte le offerte per il lotto in questione. Molti i cinesi che acquistano la giada. Visitiamo successivamente il Museo Nazionale, 5 dollari per vedere l'emblema dello stato di conservazione del Myanmar: è desolante vedere lo strato di polvere che si accumula sui quadri, sulle sculture, sugli abiti dei modellini delle varie etnie. I bagni sono così sporchi che nemmeno un cane entrerebbe, le luci sono spente perchè rotte, un odore di muffa e di chiuso non ti abbandona in nessun punto, l'aria condizionata inesistente, gli stipiti delle finestre un cimitero di insetti. Tutto sommato, qualche spunto interessante c'è, il Trono Reale, la sala delle etnie che costituiscono il Myanmar, il modello del Palazzo del Governatore Britannico, un meraviglioso edificio coloniale abbattuto nel 1977 dalla stupida ottusità dei militari, e una libreria al piano terra dove, scavando tra i libri ammucchiati per terra e tra gli scaffali, si può fare qualche buon affare. Il monsone ci sorprende all'uscita e ci rifugiamo in un centro commerciale accanto all'Ambasciata Russa: il livello qualitativo è più alto, si incontrano ragazze russe che fanno la spesa. Ceniamo in uno di quei ristorantini caratteristici del sud- est asiatico, tavolini e sedie di plastica basse, sul marciapiedi. Norme igieniche meno di zero, ma mangiamo birmano tra i birmani, spiegandoci a gesto. Terminiamo la serata con gli amici conosciuti a Mandalay (è incredibile come conosci 2 persone a 10.000 km di distanza e le reincontri sempre durante tutto il viaggio, succede sempre e ovunque) della Val di Susa in una Tea House lungo Sule Paya Road. Pernottamento al Panorama Hotel.

11 agosto YANGON

Anche oggi è piovuto tutto il giorno ma nonostante ciò si va in giro, con i nostri ponchos comprati al Lago Inle. Una meraviglia di Yangon, a parte la Shwedagon Paya, è la Chaukhtatgyi Paya con un enorme Buddha sdraiato all'interno di un capannone: osservate gli occhi e capirete la bellezza di questa scultura. Andiamo a est di Yangon, dove dovrebbe esserci un mercato, finiamo in un quartiere fatiscente e pian piano torniamo in downtown, passando per il quartiere islamico. Parlando con la gente birmana, capiamo che gli Islamici stanno sulle palle anche a loro, anche loro sono diffidenti nei confronti di questa gente che impone le loro regole senza scendere a patti. Cena a Chinatown al Win Restaurant. Pernottamento al Panorama Hotel.


12 agosto BAGO

In meno di 2 ore di taxi e 80 km (35 $) si arriva a Bago, uno scrigno pieno di meraviglie da scoprire in un giornaa di escursione. Prendiamo la prima autostrada del Myanmar, 2 carreggiate di 3 corsie ciascuna, separate da una siepe: un casello appena fuori Yangon, lungo la strada gente che attraversa, risciò a pedali, persone che riempiono le innumerevoli buche e almeno un paio di posti di blocco della polizia. A Bago ci rechiamo al Khat Wain Kyaung, un monastero molto bello con una folla di turisti in attesa della processione delle elemosine e del successivo pranzo. Lo visitiamo velocemente e lasciamo gli altri al safari fotografico. La pagoda principale di Bago, la Shwemawdaw Paya, ricorda la Shwedagon Paya di Yangon dall'esterno, ma non è nemmeno paragonabile a questa per la bellezza, la ricchezza e la complessità dell'interno. Paghiamo 5 $ invece di 10$ a testa per l'ingresso perchè non hanno da cambiare. Seguiamo il consiglio del tassista e ci facciamo portare in un tempio dove la reliquia principale è un boa di 8 metri che vive in unaa gabbia con un monaco che raccoglie le offerte per il serpente. Niente di che Hinthagon Paya, interessante la vecchia città Mon e il palazzo reale di Bago, il Kanbawzathadi Palace: non aspettatevi niente di originale, è tutto ricostruito. Merita più il palazzo del re che quello della regina (al cu interno hann trovato casa qualche centinaio di pipistrelli). Anche a Bago c'è un enorme Buddha reclinato, il Shwethalyaung Buddha. Dopo il pranzo in un ristorante per turisti, andiamo alla Mahazedi Paya: solo gli uomini possono salire in cima al hti, da cui si ha una meravigliosa vista di Bago e di un altro enorme Buddha reclinato in costruzione in mezzo alla giungla. La Shwegugale Paya consiste in un angusto corridoio circolare con 64 statue del Buddha. Ci facciamo portare al Maha Kalyani Sima, un monastero dove avvengono le ordinazioni e dove un monaco sta parlando ad una folla, in una specie di messa. L'ultima attrattiva di Bago è la Kyaikpun Paya, 4 enormi Buddha sdraiati schiena contro schiena. Nel ritorno a Yangon, prima dell'immancabile temporale, che oggi arda ad arrivare, ci fermiano al Cimitero dei Martiri della II Guerra Mondiale. Passiamo una serata birmana con Frankie: le solite due o tre birre per aperitivo (anche qui si usa) in un bar sopra il Theingyi Zei, il mercato locale, dove i ragazzi ascoltano musica rock locale e assistono ad una sfilata di moda non autorizzata (che fotografo ma vengo allontanato). Mangiamo ancora a Chinatown. Pernottamento al Panorama Hotel.

13 agosto YANGON

Ultimo giorno a Yangon. Facciamo un salto alla Libreria Internazionale di Yangon, in Sule Paya Road, accanto al Caffè Aroma (ottimo il caffè, quasi italiano): penso che ho più libri io a casa che questa libreria. Comunque in ogni posto puoi trovare una sorpresa e qui compro una guida Lonely Planet dell'URSS del 1991. Dopo la Sule Paya, nella stessa via, c'è un grande magazzino che stride fortemente con le condizioni generali del Paese: boutique di Fendi, Dunhill, Mont Blanc. Entriamo dopo il controllo al metal detector (avviene in tutti gli hotel di lusso e nei grandi magazzini, dopo i recenti attentatia Yangon e Mandalay tra marzo e maggio 2005), non c'è anima viva se non i commessi. Accendono le vetrine per noi, fa pena vedere questa gente che si affanna per mostrarci pezzi che non ci interessano, siamo, forse, gli unici visitatori della giornata o della settimana. E' un'offesa al popolo birmano vedere una parure di gioielli a 500.000 dollari, quando il salario medio statale è di 12$, quando nel nord del Paese, non Mandalay, Bagan e Lago Inle, turistico e "ricco". Quando l'unica ricchezza è dormire con lo stomaco pieno e svegliarsi in buona salute il giorno dopo oppure trovare un medico e riuscire a pagarsi una traversata sull'Ayeyarwaddy per farsi curare a Mandalay.

venerdì 27 gennaio 2006

ROAD TO MANDALAY

“Towards a new, modern and developed nation”, “Verso una nazione nuova, moderna e sviluppata”.

Imboccando il bel viale, l’asfalto nero lucido, l’erba tagliata corta e regolare, le aiuole curate, sembrerebbe veramente di essere atterrati in un Paese nuovo, moderno e sviluppato.
Purtroppo, basta fare un paio di chilometri per capire che dietro il motto inciso su un arco che dà il benvenuto a chi atterra all’aereoporto internazionale di Yangon si nasconde tutta l’ipocrisia di un regime militare che dal 1962 strangola e limita pesantemente la libertà dei tanti Popoli che formano l’Unione di Myanmar, ex Birmania.
Yangon è il nostro transito obbligato per visitare il Kachin, uno dei sette stati che, insieme alle sette divisioni costituite dalle principali città birmane, formano il Myanmar.
Lo Stato Kachin (inserito come un cuneo tra India e Cina) prende il nome dalla principale etnia che lo compone, i Kachin, un popolo di origini tibeto- birmane, di tradizione animista ma fortemente permeato di elementi buddisti e cristiani.

MARTEDI' 26 LUGLIO 2005

Partiamo con il nostro amico Frankie, un bel ragazzo birmano di 26 anni che lavora per un’agenzia turistica della capitale, un’afosa mattina di luglio con destinazione il Nord del Paese, punto di partenza del viaggio nel Kachin che seguirà, via terra o via acqua, il corso dell’Ayeyarwaddy (ex Irawaddy), l’arteria principale, il cuore pulsante di questo meraviglioso paese, luogo di traffici commerciali e culla di civiltà millenarie (Mandalay e Bagan sorgono sulle sue rive).
Dopo un breve scalo a Mandalay, dove la gente del posto scende dal turbo- elica per sgranchirsi le gambe o fumare un cheroot, camminando sotto l’aereo come fosse in una stazione ferroviaria (l’eco dell’11 settembre, con le sue fobie e le sue paranoie, da queste parti è molto lontano), atterriamo dopo quasi tre ore di volo a Myintkina, una città grande poco più di un villaggio, situata 40 chilometri a sud delle sorgenti dell’Ayeyarwaddy.
Appena scesi dall’aereo veniamo registrati dalla polizia, che segnalerà a Yangon che sono arrivati due stranieri: ogni posto che visiteremo, spesso anche lungo la strada che attraversa il Kachin, vedrà la stessa procedura di segnalazione.
Intanto, fuori dall’aereoporto, due guidatori di risciò se le danno di santa ragione, prendendosi a sassate sotto gli occhi della gente del posto che sembra abituata a tali scene: ci spiegheranno dopo che si stavano contendendo i due stranieri arrivati dall’aereo.
Appena arrivati in hotel, l’unico di quella zona in grado di ospitare i rarissimi stranieri che decidono di avventurarsi in questo Stato, riceviamo la conferma che il tratto di fiume tra Myintkyina e Banmaw non è percorribile su barca perché il livello delle acque è basso.
Quindi, inforchiamo 2 motorini cinesi a marce e andiamo alla “stazione” dei bus e taxi, uno spiazzo polveroso e assolato come solo il sole dei tropici a luglio può colpire, per contrattare una macchina che ci porti 160 chilometri più a sud, a Banmaw.
Quello che in Italia sembra facile come camminare, respirare, qui diventa un impresa: motorini, carretti trainati da buoi, animali in libertà, pick- up rigorosamente Toyota ma vecchi di almeno 20 anni si muovono senza uno schema logico per strade che da noi vedi solo quando d’estate ti avventuri alla ricerca di una caletta solitaria della Sardegna o della Sicilia, maledicendo il momento in cui hai deciso di portare la macchina o la moto su terreni che sembrano vittima di un bombardamento.
Come arriviamo la folla che carica e scarica pick- up, autobus e camion cinesi si apre per farci passare, osservandoci e indicandoci nemmeno fossimo marziani: noi imbarazzati come ladri colti con le mani nel sacco, ma anche a questo faremo l’abitudine durante questi 6 giorni.
Il resto della giornata lo passiamo oziando tra la Hsu Taung Pye Zedidaw, la Paya (termine birmano che indica un luogo sacro, sia perché contiene una reliquia del Buddha, sia perché luogo religioso), forse il posto più interessante della città, e il River View Restaurant, una vista mozzafiato sull’Ayeyarwaddy che scorre lento sotto di noi, il posto più “caro” dove mangiamo in tre spendendo 5 euro.
Le ore al ristorante passano lente, tra i piatti tipici della cucina birmana, scelte da un menù indecifrabile essendo scritto solo in birmano, svariate Myanmar Beer ghiacciate e parlando di quello che capita con Frankie, proprio come tra amici che non si vedono da anni.
Quando va via il sole, tutto il paese rimane al buio: non ci sono lampioni perché l’elettricità non arriva a Myintkyina e torniamo in hotel grazie alle deboli luci delle candele che illuminano i banchettini di cibo.
Anche in hotel manca la luce, facciamo la doccia a lume di candela: sembrerà strano ma, con l’atmosfera che si crea quando sei in un paese lontano, tutto assume un aria romantica, d’altri tempi.

MERCOLEDI' 27 LUGLIO 2005

Il nostro tassista viene a prenderci puntuale alle 8 per andare a Banmaw.
Si presenta con una vecchia Toyota pick- up (a differenza dell’Italia, qui l’appellativo pick- up viene dato a tutte le auto station- wagon), senza aria condizionata, con i sedili bagnati, niente tachimetro e il contachilometri fermo a 144.622 miglia; ci accoglie con un sorriso e la notizia che la strada è percorribile.
Quella che potrebbe essere un’allegra scampagnata ben presto si rivela un’avventura degna di un romanzo.
La strada che da Myintkyina porta a Banmaw è un tratto della gloriosa Ledo- Burma Road, che durante la Seconda Guerra Mondiale collegava Ledo in India con Kunming in Cina, permettendo agli Alleati di rifornire di armi l’esercito nazionalista di Chiang- Kai- shek aggirando i Giapponesi che avevano invaso la Birmania più a sud.
La strada, ormai in pessime condizioni (ce ne accorgeremo, eccome se ce ne accorgeremo), è percorsa da e verso la Cina da camion enormi con i loro traffici più o meno legali, lungo di essa si incontrano uomini che sembrano usciti da trattati di atropologia con fucili e spade, trafficanti di legname (teak e banano), pietre preziose (rubini e giada) e, purtroppo, anche uomini con i ceppi ai piedi che cercano, invano, di rendere migliore la strada.
Incontriamo continui posti di blocco in cui vogliono sapere chi siamo, dove andiamo, perché abbiamo scelto l’auto (grazie al cazzo, avete sospeso voi il traghetto sull’Ayeyarwaddy!!): nella prima mezz’ora ne contiamo 3 e grazie a Frankie, che risponde fin troppo bruscamente ai militari che forse cercano di arrotondare il misero stipendio, riusciamo a cavarcela con un solo controllo dei bagagli.
Un percorso che si prevede sarà di 8 ore (per 100 miglia, circa 160 chilometri) su una strada le cui condizioni diventeranno via via peggiori, proporzionalmente alla diminuzione di esseri viventi che la percorrono: inizialmente asfalto grezzo su cui circolano senza alcuna direzione apparente motorini, camion che arrivano dal confine, uomini e ogni genere di animale commestibile, dopo breve una semplice striscia scavata nella giungla, una ferita rossa (la terra è argillosa) in una fitta vegetazione di un verde così intenso come solo nei paesi tropicali si può trovare.
A tratti la strada diventa impraticabile, una distesa di fango in cui sono tracciati due binari dai camion dei minatori cinesi.
Attorno il nulla, ogni 30 minuti circa di auto compare un villaggio: dal momento che il contachilometri e il tachimetro sono inesorabilmente fermo, cerco di calcolare la distanza tra un villaggio e l’altro guardando il tempo che passa e stimando la velocità del proiettile su cui viaggiamo. A occhio e croce dovrebbero essere circa 30 chilometri. Il tutto mi fa riflettere, ancora di più, sulle comodità cui siamo abituati, l’imperativo di sapere sempre dove siamo e perché: prova ad andare in vacanza o in una città nuova senza navigatore satellitare, ti vengono le crisi di panico, bestemmi se scompare il segnale e maledici chi ha costruito edifici così alti a ridosso della strada; esci di casa senza il cellulare… guai! Torni indietro, a costo di fare tardi in ufficio, di perdere il treno.
Qui ti affidi solamente alla conoscenza delle strade dell’autista, o forse all’intuito, dal momento che le traiettorie nella giungla scompaiono con il successivo scroscio di monsone.
Ci fermiamo verso le 11, dopo tre ore di viaggio, per una sosta quando mancano 50 miglia a Banmaw: l’autista esultante ci annuncia che dovrebbero mancare “solo” 2-3 ore per arrivare. Facciamo i calcoli e ci riteniamo fortunati per impiegare “solo” 6 ore per arrivare a Banmaw.
Ma il bello deve ancora arrivare, il tutto concentrato nell’arco di circa mezz’ora.
Ripartiamo dopo un’oretta dal villaggio e subito la situazione peggiora: la strada, che prima era un pavee poverissimo, diventa sterrata; dopo pochissimi chilometri si riempie di sassi, non sassolini ma pietre grandi come meloni su cui il nostro pilota di rally vola incurante di coppa dell’olio, radiatore, marmitta e dei nostri fondoschiena, dal momento che qualche volta ti sembra che debbano perforare il fondo dell’auto (in Italia piangeremmo aggrappati al volante per far rotolare le ruote della nostra cara auto su una strada tale, accarezzeremmo il cruscotto chiedendole scusa); infine, ci arrampichiamo sulle colline e la strada scompare, solo argilla, fango, dalle pareti trasuda acqua, ci sono rigagnoli di acqua che diventano torrenti in mezzo ai quali dobbiamo guadare. Siamo in mezzo alla giungla, la mulattiera su cui viaggiamo a stento permette il passaggio di due macchine affiancate.
Superiamo il bivio (non pensate a rotonde o semafori) da cui parte una strada, la "China Road", una mulattiera scavata nella giungla che porta in Cina, al cui inizio fa bella mostra un enorme arco con scritto “OPIUM FREE STATE”. Osservando la strada che si inerpica tra la fitta vegetazione, si ha la sensazione di vita vissuta in bilico, tra la vita, che qui, forse, non vale più di qualche tronco di tek o di qualche libbra di giada, e la morte, una vita vissuta tra le difficoltà del caldo, dell'umidità, di insetti e rettili.
Come a richiamarmi alla realtà dai miei pensieri un'eplosione, un boato sordo come di un sasso che colpisce il parabrezza. Subito un forte odore di gas, dei pezzi che volano in macchina e Frankie che sobbalza sul sedile anteriore.
"... what has happened?"
Ale lancia un urlo, penso subito ad un sasso che ha rotto il parabrezza, sarebbe il male minore, anzi entrerebbe un pò di fresco in macchina.
"The lighter!!", è esploso l'accendino che era appoggiato sul cruscotto, che con il caldo e il sole a picco, deve aver raggiunto temperature da forno. Il pacchetto di sigarette che lo conteneva non esiste più, solo piccoli frammenti di carta.
Il nostro autista non fa nemmeno una piega, si gira verso Frankie e procede non appena vede che sta bene, nessuna fermata, sembra abbia fatto una scommessa per arrivare a Banmaw nel più breve tempo possibile.
I minuti passano lenti su questa strada che ormai non esiste più, ormai il villaggio è passato da venti minuti, siamo a metà strada (se la frequenza dei villaggi è quella che ho stabilito, ma a qualcosa devo pure aggrapparmi per allontanare il brivido lungo la schiena, nonostante il caldo asfissiante che c’è in macchina), non si incontrano più nè motorini nè camion nè persone.
Ad un bivio il dilemma, il tassista rallenta un attimo: c'è una strada di sassi che scende e una fangosa che sale, il percorso è stato tracciato da un camion che ha scavato 2 binari. Prendiamo la strada in salita e dopo una curva... stop, la macchina si ferma. Siamo impantanati. Le ruote girano a vuoto, l'auto si mette di traverso.
Non piove più e non è un bene perchè il sole che è uscito è implacabile.
In una frazione di secondo la mia mente analizza la situazione: siamo fermi a metà tra due villaggi, circa dieci chilometri in un senso o in un altro; nessun telefonino, anche se dopo un paio di giorni in Myanmar riscopri la fortuna di non averlo; un paio di bottigliette d'acqua; nessuna aria condizionata in macchina; almeno 35 gradi con il sole a picco e un'umidità tipo piscina coperta.
Scendiamo dall'auto per alleggerirla ma non si muove comunque, anzi affonda sempre di più. Proviamo mettendo dei sassi sotto le ruote ma l'unico risultato è che rischiamo di essere colpiti dai sassi che vengono sparati dalle ruote.
Il sudore cola dalla fronte, le gambe in mezzo al fango fino a sopra la caviglia. Io e Frankie proviamo a spingere mentre l'autista schiaccia come un pazzo sull'acceleratore. Riusciamo a liberarla ma, a causa del brutta abitudine di usare marce bassissime con l'idea di risparmiare il carburante (è facile, da queste parti, viaggiare a 30 km all'ora in quarta marcia), si spegne dopo nemmeno 5 metri, ingolfata. Gira la chiave di accensione un paio di volte ma il motore borbotta senza dare segno di volersi riavviare. Quando vedo l'autista scendere con una bottiglia di acqua e aprire il cofano, un brivido mi corre lungo la schiena. Mi preoccupo per Ale, sono io che l'ho portata qui, ma forse, tutto sommato, anche lei sta godendo di questa avventura.
L'autista guarda dentro il cofano, sposta due o tre cavi, solleva un'asticella, e appoggia la mano sul motore, come un medico palpa l'addome.
"OK, OK" sono le uniche parole che ci dice sbatte il cofano richiudendolo e sbotta in un sorriso mostrando il pollice alzata. Lo guardiamo risalire in macchina con un'ansia simile a quando il professore di filosofia osservava il registro per le interrogazioni: il motore riparte al primo colpo e con la mano ci fa cenno di salire.
A questo punto chiedo a Frankie se è sicuro che riusciamo ad arrivare a Banmaw viste le condizioni delle strade, se forse non è il caso di tornare a Myintkyina e trovare un sistema alternativo per arrivare a Banmaw. Parla con l'autista, pendiamo dalle sue labbra, ci traduce di non preoccuparci perchè la strada non peggiora di sicuro e mancano solo due ore all'arrivo.
Risaliamo in auto ed, effettivamente, appena passiamo il passo attraverso le colline la strada pian piano si copre di sassi, scompare il fango e ricompaiono le buche.
Ci accorgiamo che ci stiamo avvicinando a Banmaw dai bambini con il longyi verde e la camicia bianca, scolari che escono dal primo turno o vanno a scuola nel pomeriggio.
Arriviamo a Banmaw che sono le 14.30, abbraccio l'autista e gli regaliamo 3000 kyat, circa 3 dollari, praticamente tre o quattro giorni di stipendio, facendolo felicissimo.

Prendiamo possesso della nostra adorata camera al Friendship Hotel, un albergo da poco ristrutturato “adatto ad una clientela internazionale”: anche qui siamo gli unici occidentali e riceviamo un’accoglienza commovente.
La nostra guida ci presenta U (appellativo birmano che significa "zio" e che si dà alle persone importanti) Sein Win, la “guida” del paese, che si dimostrerà una benedizione per chi, come noi, vogliamo uscire dai percorsi turistici classici: sessant’anni, fisico asciutto circondato da pantaloni eleganti e una camicia azzurra che stona in mezzo a tutti i Kachin con il loro longyi a quadretti verde- blu, ex- culturista e “inventore” di una sorta di acquascooter e di un elicottero che non può volare perché non trova il motore.
GIOVEDI' 28 LUGLIO 2005

Puntuali, ci troviamo nella "sala" delle colazioni del Friendship Hotel con Frankie, alle 8.30.
Consultiamo la mappa di Banmaw che ci hanno cosegnato in hotel, una fotocopia disegnata a mano, e ci dirigiamo a casa di U Sein Win, segnata sulla cartina con la scritta "Guide".
La casa è nel "quartiere residenziale", effettivamente, rispetto alle altre case questa è una casa all'occidentale, anche se spoglia, fuori e dentro.

Ci porta a visitare un asilo, con un nugolo di bambini urlanti di 3 anni che, seduti su panche di legno, ripetono in coro ciò che le maestre insegnano, inglese compreso.
Anche qui ci guardano come marziani e le maestre (ce n’è più di una, oltre a quella che insegna, un paio girano tra i banchi per controllare che i bimbi seguano) faticano non poco a richiamare l’attenzione.
Facciamo due chiacchiere, con il Direttore e la segretaria, davanti a una tazza di the verde accompagnata da “erba da the”, un mix di erba amara, semi di curcuma e noccioline.
Vedono le macchine fotografiche e ci chiedono delle foto ricordo: è un momento importante, portano fuori le sedie, il direttore e la segretaria seduti, le maestre dietro.
Fatte le foto di rito con la promessa (mantenuta!!) di spedirle, ci dirigiamo verso il Monastero di Thein Phar Hill, raggiungibile solo via fiume, circa 7 miglia a nord- ovest rispetto a Banmaw.
Anche qui l’atmosfera è d’altri tempi, un monastero abbarbicato su una collina da cui si domina l’Ayayarwaddy con tutte le sue isole “fantasma”, così chiamate perché la loro esistenza, come quella delle palafitte costruite, dipende dal livello dell’acqua del fiume.
Il Monastero è costruito a “terrazze” con quattro rampe di gradini ognuna con un a Paya.
La prima rampa ospita un capannone all’interno che sembra un magazzino: una porta chiusa con una catena e un lucchetto aperto, basta che U Sein svolga il nodo metallico che possiamo entrare.
All’interno è tutto buio, anche le finestre sono chiuse: un colpo alle persiane impolverate e il sole implacabile delle 2 del pomeriggio illumina un Buddha di 6 metri che occupa tutta la parete nord dello stanzone.
Tagliamo dritto alla secondo spiazzo, dove c’è il monastero vero e proprio, per salire in cima alla collina.
Arriviamo con il cuore che sembra scoppiare nel petto, a causa del caldo e dei gradini, beviamo le ultime scorte di acqua.
Ci riposiamo mentre con Frankie e U Sein discutiamo sulle differenze dei simboli religiosi tra Cristianesimo e Buddismo: Paya, Stupa, Tempio, Zedi, Pagoda.
Torniamo al monastero, dove ci accoglie una monaca fasciata in un vestito color pesca, circondata da donne anziane, le aiutanti che ogni giorno vengono dai villaggi vicini.
L’atmosfera è di ozio totale.
Ci sono ragazzi appoggiati alle pareti della stanza che guardano in aria, altri fumano cheerot, altri ancora impastano con le mani il kun’- yar un impasto di noci di betel, limone, foglie di betel e tabacco, un vizio tipicamente birmano che causa dipendenza e un esagerato aumento della salivazione, che porta chi lo utilizza a sputare continuamente una saliva rossa come il sangue: pure le decine di gatti sembrano contagiati dall’atmosfera e sono stesi ovunque a dormire.
Le ragazze ci osservano da una finestra, sono curiose e, appena mi volto per osservarle, scoppiano i risate complici.
Le donne anziane che aiutano la monaca ci fanno aria con i ventagli di paglia e ci offrono banane e the verde: anche loro fumano, mangiano betel e ruttano come se niente fosse: una di queste ci chiede di nascosto una Marlboro, ci fa capire a gesti che la fumerà dopo, la monaca concede solo di fumare i sigari birmani.
Ci congediamo dalla monaca e Frankie ci porta nell’edificio accanto dove c’è il monaco anziano.
Sta dormendo su una stuoia coperta da una zanzariera: Frankie e U Sein si avvicinano, si inginocchiano fino a toccare terra con la fronte in segno di rispetto.
Il monaco di sveglia, ci chiede di avvicinarci e vuole che Frankie gli faccia da interprete: chi siamo, da dove veniamo fino alla “benedizione” di un viaggio felice e sicuro.
Torniamo con la barca a Banmaw proprio per la cena, che decidiamo di condividere anche con U Sein.
Questa sera festa grande a Banmaw: hanno saputo che ci sono due forestieri (io e Ale) e tutte le case e gli edifici pubblici danno fondo alle riserve di nafta per illuminare il paese.
Basta così poco per essere felici…

VENERDI' 29 LUGLIO 2005

La mattina dopo levataccia alle 5 e mezza per recarci al molo (una spianata di terra che costeggia l’Ayeyarwaddy) dove prenderemo il battello per Mandalay.
Il motore del pulmino del Friendship Hotel esplode sotto il mio sedile dopo nemmeno 5 minuti di marcia e un fumo nero esce dal cruscotto invadendo il pulmino.
L’autista cerca di riparare il guasto sul posto rovistando nell’impianto elettrico, tra fumo e cavi che sembrano messi lì a caso ma, vista la faccia perplessa, è chiaro che stiamo rischiando di rimanere altri due giorni a Banmaw.
Dopo 5 minuti di inutili tentativi, solo risciò a pedale attorno, l’autista scompare e torna miracolosamente con un pick- up.
Carichiamo gli zaini sul tetto del pick- up, io e Ale ci sediamo sui sedili anteriori mentre l’autista guida con la testa fuori dal finestrino perché piove e non vanno i tergicristalli: Frankie sta seduto sul tetto.
Il battello che ci porterà a Mandalay è un barcone cinese a 3 ponti: il primo ponte è un piccolo villaggio galleggiante, con tanto di ristorante, pentoloni di riso su fuochi di legna e tavolini di plastica con le sedie piccole tipiche da bambini, un piccolo mercato e in ogni spazio libero scatoloni e sacchi di riso.
Noi “alloggiamo” sul secondo ponte, nelle cabine di prima classe, 2 cuccette con un ventilatore elettrico (va solo quando il battello è in movimento) e due finestre chiuse da una zanzariera bucata che sembra il cimitero di tutte le specie volanti del Myanmar.
Il bagno, in comune per tutte le 8 cabine, è una latrina con un bidone e una ciotola per pulire la turca: ho sempre avuto il terrore dei ragni, strano che riesca ad espletare le mie funzioni fisiologiche sotto gli occhi di questi mostri appesi al soffitto.
Nella porta accanto il “locale doccia”, un altro bidone con un’altra ciotola e un canale di scolo che scarica direttamente fuori dalla fiancata del battello: noi due saremo i passeggeri più sporchi, visto l’andirivieni e i litri di bagnoschiuma tailandese che i nostri compagni di prima classe consumeranno a ritmo continuo.
Dopo circa 1 ora di traghetto entriamo in uno dei posti più belli che abbia mai visto: le gole a nord di Shwegu.
Si è alzato un forte vento e una pioggia calda che cade quasi orizzontale non tolgono nulla alla bellezza di ciò che ci circonda.
Il battello avanza piano in un percorso tortuoso, sembra quasi che allungando la mano fuori dalla balaustra, si possa toccare il fianco della montagna.
Qua e là nel verde intenso della giungla, umida per la pioggia, si vede del fumo e uno stupa, a ricordare che quella che sembra un’inaccessibile distesa di tronchi e foglie, in realtà offre riparo e da vivere alla gente del posto.
Le pareti sembrano vive anche per il continuo rumore che si sente, animali di ogni tipo lanciano i loro richiami, così chiari ma non localizzabili, tanto che tutta la gola sembra parlare.
Arriviamo a Shwegu verso le 10 del mattino.
Lungo il fiume la gente fa il bagno, si lava i denti e lava i propri vestiti: le donne senza togliersi il longyi, gli uomini semplicemente in pantaloncini o in mutande.
L’attracco al molo è frenetico, tutto avviene rapidamente: dai 2 banchetti di cibo si staccano 2 bambini che salgono sul battello e si lanciano nella prima classe per vendere da mangiare (sacchetti di patatine fritte fatte in casa, formiche comprese); scarichiamo persone e mercanzie, imbarchiamo altra gente e cesti enormi di banane verdi.
Un giovane poliziotto ubriaco attacca bottone dal molo.
Chiede a Frankie chi siamo e da quale paese veniamo, ci offre la sua protezione per il viaggio: vuole continuamente stringermi la mano e parla solo birmano, con Frankie che traduce.
Come diversivo, Frankie, ci porta due mele e un coltellino svizzero per sbucciarle.
Inizio a pelare la prima quando compare il poliziotto ubriaco: vuole ancora stringermi la mano e mi offre ancora la sua protezione.
Frankie si spazientisce, il tono della voce si alza, lo prende sotto braccio e ne esce un piccolo parapiglia in cui io sono in mezzo: mi accorgo che ho in mano il coltellino e rapidamente lo faccio cadere sulla sedia, sarebbe il colmo ferire per sbaglio un poliziotto ubriaco in un paese con la dittatura militare a diecimila chilometri di distanza.
Finalmente Frankie riesce ad allontanare il poliziotto, che ritroverò dopo poco tempo sul ponte inferiore sdraiato sui sacchi di riso a smaltire la sbornia.
Arriviamo a Katha per mezzogiorno e il caldo ormai è sopportabile solo stando all’aperto: la cabina, anche con il ventilatore acceso, è un forno crematorio.
Sale un ragazzino con i genitori: è tutto fasciato, ha la mandibola fratturata e profondi tagli sul torace.
Dalla traduzione che mi fanno capisco che sta andando a Mandalay per curarsi, è caduto da una palma da cocco.
Chiedo se hanno bisogno di aiuto o di farmaci per il dolore, ringraziano con gli occhi lucidi ma dicono che sono a posto, non so se sia la verità o se non si fidano delle medicine “occidentali”.
Passeranno il resto del tempo che ci separa da Mandalay nella cabina, i genitori che a turno vegliano il ragazzino facendogli aria con i ventagli di bambù.
La barca riprende la discesa dell’Ayeyarwaddy, molto lentamente, a occhio non supererà i 10 chilometri orari: il carburante costa troppo al mercato nero, dove puoi trovarne quanto ne vuoi, quello governativo a prezzo più basso è limitato.
Quindi usare motori poco potenti aiuta a rimanere nel budget.
La nostra lenta discesa dell’Ayeyarwaddy procede calma, tra una Myanmar Beer che ogni tanto Frankie porta dal ponte inferiore, e qualche snack birmano, patatine e banane verdi principalmente: come il sole inizia a calare l’atmosfera ritorna magica, la brezza della navigazione attenua la morsa dell’umidità, e il cielo si tinge d’oro.
Verso le 19 arrviamo all’ultimo approdo prima della notte: una breve stima della carta del Myanmar dice che dovrebbe essere Tagaung, subito confermata dalla traduzione che Frankie fa del cartello sul molo.
E’ ormai buio e io e Frankie scendiamo dal battello praticamente alla cieca per andare a cercare nel villaggio le provviste per la notte: attraversiamo un labirinto formato da gente ammassata che carica e scarica mercanzie dal battello, banchetti improvvisati di cibo, persone che dormono per terra come se fossero nel più bell’albergo di Birmania.
Le uniche luci che illumina il cammino sono le stelle (noi Occidentali possiamo comprendere cosa voglia dire un cielo stellato solo dopo averlo visto in un Paese tecnologicamente arretrato, una delle cose che noi tutti dovremmo invidiare è la mancanza di luce che toglie ogni bellezza a un cielo stellato) e le torcie elettriche di chi va e viene dal battello.
Si fa fatica a vedere dove mettiamo i piedi ed è un problema dal momento che dal molo al villaggio saranno 50 metri di palude, terra limacciosa che rimane con la bassa marea dell’Ayeyarwaddy, scavalcata da una serie di assi di legno, messe a zig- zag.
Riusciamo a raggiungere il villaggio, entriamo in un emporio locale, e per meno di 1 euro e mezzo acquistiamo 1 casco di banane, 3 litri di acqua, due birre e 2 aranciate.
Risaliamo sul battello, sembra che aspettassero proprio noi, appena mettiamo piede sul ponte tolgono gli ormeggi: mi piace pensare così, non sarebbe stato bello rimanere a terra.
Vorremmo brindare alla nostra amicizia con Frankie, sorseggiando la birra e parlando di quello che passa per la testa ma sarebbe più facile respirare sott’acqua.
Tutto ad un tratto compaiono milioni di insetti, un inferno di zanzare, moscerini e farfalloni, alcuni grandi come la mano di un bambino; esseri volanti ovunque, vicino agli zampironi, vicino alle luci, al buio, ti sbattono tranquillamente addosso come se fossi invisibile.
Non resta che coprirci di Autan e chiuderci in cabina, le finestre e le porte rigorosamente chiuse per via delle zanzariere bucate.
SABATO 30 LUGLIO 2005

Se mai viaggerete nel Sud- Est Asiatico, non portatevi la sveglia quando dormirete con la gente del posto.
Alle sei e mezza del mattino veniamo svegliati da ruggiti umani, chiunque si sveglia pulisce naso, laringe, trachea e polmoni fino all’ultimo alveolo, svuotando per terra, fortunatamente in questo caso nel fiume, litri e litri di fluidi organici.
Il paesaggio è cambiato, il fiume è più largo, almeno 1 chilometro da sponda a sponda, i villaggi più frequenti come anche gli stupa sulle colline, le barche con il carico di legname.
Da un monastero sentiamo cantare: tra poco saremo a Mandalay.