MOMA

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venerdì 27 gennaio 2006

ROAD TO MANDALAY

“Towards a new, modern and developed nation”, “Verso una nazione nuova, moderna e sviluppata”.

Imboccando il bel viale, l’asfalto nero lucido, l’erba tagliata corta e regolare, le aiuole curate, sembrerebbe veramente di essere atterrati in un Paese nuovo, moderno e sviluppato.
Purtroppo, basta fare un paio di chilometri per capire che dietro il motto inciso su un arco che dà il benvenuto a chi atterra all’aereoporto internazionale di Yangon si nasconde tutta l’ipocrisia di un regime militare che dal 1962 strangola e limita pesantemente la libertà dei tanti Popoli che formano l’Unione di Myanmar, ex Birmania.
Yangon è il nostro transito obbligato per visitare il Kachin, uno dei sette stati che, insieme alle sette divisioni costituite dalle principali città birmane, formano il Myanmar.
Lo Stato Kachin (inserito come un cuneo tra India e Cina) prende il nome dalla principale etnia che lo compone, i Kachin, un popolo di origini tibeto- birmane, di tradizione animista ma fortemente permeato di elementi buddisti e cristiani.

MARTEDI' 26 LUGLIO 2005

Partiamo con il nostro amico Frankie, un bel ragazzo birmano di 26 anni che lavora per un’agenzia turistica della capitale, un’afosa mattina di luglio con destinazione il Nord del Paese, punto di partenza del viaggio nel Kachin che seguirà, via terra o via acqua, il corso dell’Ayeyarwaddy (ex Irawaddy), l’arteria principale, il cuore pulsante di questo meraviglioso paese, luogo di traffici commerciali e culla di civiltà millenarie (Mandalay e Bagan sorgono sulle sue rive).
Dopo un breve scalo a Mandalay, dove la gente del posto scende dal turbo- elica per sgranchirsi le gambe o fumare un cheroot, camminando sotto l’aereo come fosse in una stazione ferroviaria (l’eco dell’11 settembre, con le sue fobie e le sue paranoie, da queste parti è molto lontano), atterriamo dopo quasi tre ore di volo a Myintkina, una città grande poco più di un villaggio, situata 40 chilometri a sud delle sorgenti dell’Ayeyarwaddy.
Appena scesi dall’aereo veniamo registrati dalla polizia, che segnalerà a Yangon che sono arrivati due stranieri: ogni posto che visiteremo, spesso anche lungo la strada che attraversa il Kachin, vedrà la stessa procedura di segnalazione.
Intanto, fuori dall’aereoporto, due guidatori di risciò se le danno di santa ragione, prendendosi a sassate sotto gli occhi della gente del posto che sembra abituata a tali scene: ci spiegheranno dopo che si stavano contendendo i due stranieri arrivati dall’aereo.
Appena arrivati in hotel, l’unico di quella zona in grado di ospitare i rarissimi stranieri che decidono di avventurarsi in questo Stato, riceviamo la conferma che il tratto di fiume tra Myintkyina e Banmaw non è percorribile su barca perché il livello delle acque è basso.
Quindi, inforchiamo 2 motorini cinesi a marce e andiamo alla “stazione” dei bus e taxi, uno spiazzo polveroso e assolato come solo il sole dei tropici a luglio può colpire, per contrattare una macchina che ci porti 160 chilometri più a sud, a Banmaw.
Quello che in Italia sembra facile come camminare, respirare, qui diventa un impresa: motorini, carretti trainati da buoi, animali in libertà, pick- up rigorosamente Toyota ma vecchi di almeno 20 anni si muovono senza uno schema logico per strade che da noi vedi solo quando d’estate ti avventuri alla ricerca di una caletta solitaria della Sardegna o della Sicilia, maledicendo il momento in cui hai deciso di portare la macchina o la moto su terreni che sembrano vittima di un bombardamento.
Come arriviamo la folla che carica e scarica pick- up, autobus e camion cinesi si apre per farci passare, osservandoci e indicandoci nemmeno fossimo marziani: noi imbarazzati come ladri colti con le mani nel sacco, ma anche a questo faremo l’abitudine durante questi 6 giorni.
Il resto della giornata lo passiamo oziando tra la Hsu Taung Pye Zedidaw, la Paya (termine birmano che indica un luogo sacro, sia perché contiene una reliquia del Buddha, sia perché luogo religioso), forse il posto più interessante della città, e il River View Restaurant, una vista mozzafiato sull’Ayeyarwaddy che scorre lento sotto di noi, il posto più “caro” dove mangiamo in tre spendendo 5 euro.
Le ore al ristorante passano lente, tra i piatti tipici della cucina birmana, scelte da un menù indecifrabile essendo scritto solo in birmano, svariate Myanmar Beer ghiacciate e parlando di quello che capita con Frankie, proprio come tra amici che non si vedono da anni.
Quando va via il sole, tutto il paese rimane al buio: non ci sono lampioni perché l’elettricità non arriva a Myintkyina e torniamo in hotel grazie alle deboli luci delle candele che illuminano i banchettini di cibo.
Anche in hotel manca la luce, facciamo la doccia a lume di candela: sembrerà strano ma, con l’atmosfera che si crea quando sei in un paese lontano, tutto assume un aria romantica, d’altri tempi.

MERCOLEDI' 27 LUGLIO 2005

Il nostro tassista viene a prenderci puntuale alle 8 per andare a Banmaw.
Si presenta con una vecchia Toyota pick- up (a differenza dell’Italia, qui l’appellativo pick- up viene dato a tutte le auto station- wagon), senza aria condizionata, con i sedili bagnati, niente tachimetro e il contachilometri fermo a 144.622 miglia; ci accoglie con un sorriso e la notizia che la strada è percorribile.
Quella che potrebbe essere un’allegra scampagnata ben presto si rivela un’avventura degna di un romanzo.
La strada che da Myintkyina porta a Banmaw è un tratto della gloriosa Ledo- Burma Road, che durante la Seconda Guerra Mondiale collegava Ledo in India con Kunming in Cina, permettendo agli Alleati di rifornire di armi l’esercito nazionalista di Chiang- Kai- shek aggirando i Giapponesi che avevano invaso la Birmania più a sud.
La strada, ormai in pessime condizioni (ce ne accorgeremo, eccome se ce ne accorgeremo), è percorsa da e verso la Cina da camion enormi con i loro traffici più o meno legali, lungo di essa si incontrano uomini che sembrano usciti da trattati di atropologia con fucili e spade, trafficanti di legname (teak e banano), pietre preziose (rubini e giada) e, purtroppo, anche uomini con i ceppi ai piedi che cercano, invano, di rendere migliore la strada.
Incontriamo continui posti di blocco in cui vogliono sapere chi siamo, dove andiamo, perché abbiamo scelto l’auto (grazie al cazzo, avete sospeso voi il traghetto sull’Ayeyarwaddy!!): nella prima mezz’ora ne contiamo 3 e grazie a Frankie, che risponde fin troppo bruscamente ai militari che forse cercano di arrotondare il misero stipendio, riusciamo a cavarcela con un solo controllo dei bagagli.
Un percorso che si prevede sarà di 8 ore (per 100 miglia, circa 160 chilometri) su una strada le cui condizioni diventeranno via via peggiori, proporzionalmente alla diminuzione di esseri viventi che la percorrono: inizialmente asfalto grezzo su cui circolano senza alcuna direzione apparente motorini, camion che arrivano dal confine, uomini e ogni genere di animale commestibile, dopo breve una semplice striscia scavata nella giungla, una ferita rossa (la terra è argillosa) in una fitta vegetazione di un verde così intenso come solo nei paesi tropicali si può trovare.
A tratti la strada diventa impraticabile, una distesa di fango in cui sono tracciati due binari dai camion dei minatori cinesi.
Attorno il nulla, ogni 30 minuti circa di auto compare un villaggio: dal momento che il contachilometri e il tachimetro sono inesorabilmente fermo, cerco di calcolare la distanza tra un villaggio e l’altro guardando il tempo che passa e stimando la velocità del proiettile su cui viaggiamo. A occhio e croce dovrebbero essere circa 30 chilometri. Il tutto mi fa riflettere, ancora di più, sulle comodità cui siamo abituati, l’imperativo di sapere sempre dove siamo e perché: prova ad andare in vacanza o in una città nuova senza navigatore satellitare, ti vengono le crisi di panico, bestemmi se scompare il segnale e maledici chi ha costruito edifici così alti a ridosso della strada; esci di casa senza il cellulare… guai! Torni indietro, a costo di fare tardi in ufficio, di perdere il treno.
Qui ti affidi solamente alla conoscenza delle strade dell’autista, o forse all’intuito, dal momento che le traiettorie nella giungla scompaiono con il successivo scroscio di monsone.
Ci fermiamo verso le 11, dopo tre ore di viaggio, per una sosta quando mancano 50 miglia a Banmaw: l’autista esultante ci annuncia che dovrebbero mancare “solo” 2-3 ore per arrivare. Facciamo i calcoli e ci riteniamo fortunati per impiegare “solo” 6 ore per arrivare a Banmaw.
Ma il bello deve ancora arrivare, il tutto concentrato nell’arco di circa mezz’ora.
Ripartiamo dopo un’oretta dal villaggio e subito la situazione peggiora: la strada, che prima era un pavee poverissimo, diventa sterrata; dopo pochissimi chilometri si riempie di sassi, non sassolini ma pietre grandi come meloni su cui il nostro pilota di rally vola incurante di coppa dell’olio, radiatore, marmitta e dei nostri fondoschiena, dal momento che qualche volta ti sembra che debbano perforare il fondo dell’auto (in Italia piangeremmo aggrappati al volante per far rotolare le ruote della nostra cara auto su una strada tale, accarezzeremmo il cruscotto chiedendole scusa); infine, ci arrampichiamo sulle colline e la strada scompare, solo argilla, fango, dalle pareti trasuda acqua, ci sono rigagnoli di acqua che diventano torrenti in mezzo ai quali dobbiamo guadare. Siamo in mezzo alla giungla, la mulattiera su cui viaggiamo a stento permette il passaggio di due macchine affiancate.
Superiamo il bivio (non pensate a rotonde o semafori) da cui parte una strada, la "China Road", una mulattiera scavata nella giungla che porta in Cina, al cui inizio fa bella mostra un enorme arco con scritto “OPIUM FREE STATE”. Osservando la strada che si inerpica tra la fitta vegetazione, si ha la sensazione di vita vissuta in bilico, tra la vita, che qui, forse, non vale più di qualche tronco di tek o di qualche libbra di giada, e la morte, una vita vissuta tra le difficoltà del caldo, dell'umidità, di insetti e rettili.
Come a richiamarmi alla realtà dai miei pensieri un'eplosione, un boato sordo come di un sasso che colpisce il parabrezza. Subito un forte odore di gas, dei pezzi che volano in macchina e Frankie che sobbalza sul sedile anteriore.
"... what has happened?"
Ale lancia un urlo, penso subito ad un sasso che ha rotto il parabrezza, sarebbe il male minore, anzi entrerebbe un pò di fresco in macchina.
"The lighter!!", è esploso l'accendino che era appoggiato sul cruscotto, che con il caldo e il sole a picco, deve aver raggiunto temperature da forno. Il pacchetto di sigarette che lo conteneva non esiste più, solo piccoli frammenti di carta.
Il nostro autista non fa nemmeno una piega, si gira verso Frankie e procede non appena vede che sta bene, nessuna fermata, sembra abbia fatto una scommessa per arrivare a Banmaw nel più breve tempo possibile.
I minuti passano lenti su questa strada che ormai non esiste più, ormai il villaggio è passato da venti minuti, siamo a metà strada (se la frequenza dei villaggi è quella che ho stabilito, ma a qualcosa devo pure aggrapparmi per allontanare il brivido lungo la schiena, nonostante il caldo asfissiante che c’è in macchina), non si incontrano più nè motorini nè camion nè persone.
Ad un bivio il dilemma, il tassista rallenta un attimo: c'è una strada di sassi che scende e una fangosa che sale, il percorso è stato tracciato da un camion che ha scavato 2 binari. Prendiamo la strada in salita e dopo una curva... stop, la macchina si ferma. Siamo impantanati. Le ruote girano a vuoto, l'auto si mette di traverso.
Non piove più e non è un bene perchè il sole che è uscito è implacabile.
In una frazione di secondo la mia mente analizza la situazione: siamo fermi a metà tra due villaggi, circa dieci chilometri in un senso o in un altro; nessun telefonino, anche se dopo un paio di giorni in Myanmar riscopri la fortuna di non averlo; un paio di bottigliette d'acqua; nessuna aria condizionata in macchina; almeno 35 gradi con il sole a picco e un'umidità tipo piscina coperta.
Scendiamo dall'auto per alleggerirla ma non si muove comunque, anzi affonda sempre di più. Proviamo mettendo dei sassi sotto le ruote ma l'unico risultato è che rischiamo di essere colpiti dai sassi che vengono sparati dalle ruote.
Il sudore cola dalla fronte, le gambe in mezzo al fango fino a sopra la caviglia. Io e Frankie proviamo a spingere mentre l'autista schiaccia come un pazzo sull'acceleratore. Riusciamo a liberarla ma, a causa del brutta abitudine di usare marce bassissime con l'idea di risparmiare il carburante (è facile, da queste parti, viaggiare a 30 km all'ora in quarta marcia), si spegne dopo nemmeno 5 metri, ingolfata. Gira la chiave di accensione un paio di volte ma il motore borbotta senza dare segno di volersi riavviare. Quando vedo l'autista scendere con una bottiglia di acqua e aprire il cofano, un brivido mi corre lungo la schiena. Mi preoccupo per Ale, sono io che l'ho portata qui, ma forse, tutto sommato, anche lei sta godendo di questa avventura.
L'autista guarda dentro il cofano, sposta due o tre cavi, solleva un'asticella, e appoggia la mano sul motore, come un medico palpa l'addome.
"OK, OK" sono le uniche parole che ci dice sbatte il cofano richiudendolo e sbotta in un sorriso mostrando il pollice alzata. Lo guardiamo risalire in macchina con un'ansia simile a quando il professore di filosofia osservava il registro per le interrogazioni: il motore riparte al primo colpo e con la mano ci fa cenno di salire.
A questo punto chiedo a Frankie se è sicuro che riusciamo ad arrivare a Banmaw viste le condizioni delle strade, se forse non è il caso di tornare a Myintkyina e trovare un sistema alternativo per arrivare a Banmaw. Parla con l'autista, pendiamo dalle sue labbra, ci traduce di non preoccuparci perchè la strada non peggiora di sicuro e mancano solo due ore all'arrivo.
Risaliamo in auto ed, effettivamente, appena passiamo il passo attraverso le colline la strada pian piano si copre di sassi, scompare il fango e ricompaiono le buche.
Ci accorgiamo che ci stiamo avvicinando a Banmaw dai bambini con il longyi verde e la camicia bianca, scolari che escono dal primo turno o vanno a scuola nel pomeriggio.
Arriviamo a Banmaw che sono le 14.30, abbraccio l'autista e gli regaliamo 3000 kyat, circa 3 dollari, praticamente tre o quattro giorni di stipendio, facendolo felicissimo.

Prendiamo possesso della nostra adorata camera al Friendship Hotel, un albergo da poco ristrutturato “adatto ad una clientela internazionale”: anche qui siamo gli unici occidentali e riceviamo un’accoglienza commovente.
La nostra guida ci presenta U (appellativo birmano che significa "zio" e che si dà alle persone importanti) Sein Win, la “guida” del paese, che si dimostrerà una benedizione per chi, come noi, vogliamo uscire dai percorsi turistici classici: sessant’anni, fisico asciutto circondato da pantaloni eleganti e una camicia azzurra che stona in mezzo a tutti i Kachin con il loro longyi a quadretti verde- blu, ex- culturista e “inventore” di una sorta di acquascooter e di un elicottero che non può volare perché non trova il motore.
GIOVEDI' 28 LUGLIO 2005

Puntuali, ci troviamo nella "sala" delle colazioni del Friendship Hotel con Frankie, alle 8.30.
Consultiamo la mappa di Banmaw che ci hanno cosegnato in hotel, una fotocopia disegnata a mano, e ci dirigiamo a casa di U Sein Win, segnata sulla cartina con la scritta "Guide".
La casa è nel "quartiere residenziale", effettivamente, rispetto alle altre case questa è una casa all'occidentale, anche se spoglia, fuori e dentro.

Ci porta a visitare un asilo, con un nugolo di bambini urlanti di 3 anni che, seduti su panche di legno, ripetono in coro ciò che le maestre insegnano, inglese compreso.
Anche qui ci guardano come marziani e le maestre (ce n’è più di una, oltre a quella che insegna, un paio girano tra i banchi per controllare che i bimbi seguano) faticano non poco a richiamare l’attenzione.
Facciamo due chiacchiere, con il Direttore e la segretaria, davanti a una tazza di the verde accompagnata da “erba da the”, un mix di erba amara, semi di curcuma e noccioline.
Vedono le macchine fotografiche e ci chiedono delle foto ricordo: è un momento importante, portano fuori le sedie, il direttore e la segretaria seduti, le maestre dietro.
Fatte le foto di rito con la promessa (mantenuta!!) di spedirle, ci dirigiamo verso il Monastero di Thein Phar Hill, raggiungibile solo via fiume, circa 7 miglia a nord- ovest rispetto a Banmaw.
Anche qui l’atmosfera è d’altri tempi, un monastero abbarbicato su una collina da cui si domina l’Ayayarwaddy con tutte le sue isole “fantasma”, così chiamate perché la loro esistenza, come quella delle palafitte costruite, dipende dal livello dell’acqua del fiume.
Il Monastero è costruito a “terrazze” con quattro rampe di gradini ognuna con un a Paya.
La prima rampa ospita un capannone all’interno che sembra un magazzino: una porta chiusa con una catena e un lucchetto aperto, basta che U Sein svolga il nodo metallico che possiamo entrare.
All’interno è tutto buio, anche le finestre sono chiuse: un colpo alle persiane impolverate e il sole implacabile delle 2 del pomeriggio illumina un Buddha di 6 metri che occupa tutta la parete nord dello stanzone.
Tagliamo dritto alla secondo spiazzo, dove c’è il monastero vero e proprio, per salire in cima alla collina.
Arriviamo con il cuore che sembra scoppiare nel petto, a causa del caldo e dei gradini, beviamo le ultime scorte di acqua.
Ci riposiamo mentre con Frankie e U Sein discutiamo sulle differenze dei simboli religiosi tra Cristianesimo e Buddismo: Paya, Stupa, Tempio, Zedi, Pagoda.
Torniamo al monastero, dove ci accoglie una monaca fasciata in un vestito color pesca, circondata da donne anziane, le aiutanti che ogni giorno vengono dai villaggi vicini.
L’atmosfera è di ozio totale.
Ci sono ragazzi appoggiati alle pareti della stanza che guardano in aria, altri fumano cheerot, altri ancora impastano con le mani il kun’- yar un impasto di noci di betel, limone, foglie di betel e tabacco, un vizio tipicamente birmano che causa dipendenza e un esagerato aumento della salivazione, che porta chi lo utilizza a sputare continuamente una saliva rossa come il sangue: pure le decine di gatti sembrano contagiati dall’atmosfera e sono stesi ovunque a dormire.
Le ragazze ci osservano da una finestra, sono curiose e, appena mi volto per osservarle, scoppiano i risate complici.
Le donne anziane che aiutano la monaca ci fanno aria con i ventagli di paglia e ci offrono banane e the verde: anche loro fumano, mangiano betel e ruttano come se niente fosse: una di queste ci chiede di nascosto una Marlboro, ci fa capire a gesti che la fumerà dopo, la monaca concede solo di fumare i sigari birmani.
Ci congediamo dalla monaca e Frankie ci porta nell’edificio accanto dove c’è il monaco anziano.
Sta dormendo su una stuoia coperta da una zanzariera: Frankie e U Sein si avvicinano, si inginocchiano fino a toccare terra con la fronte in segno di rispetto.
Il monaco di sveglia, ci chiede di avvicinarci e vuole che Frankie gli faccia da interprete: chi siamo, da dove veniamo fino alla “benedizione” di un viaggio felice e sicuro.
Torniamo con la barca a Banmaw proprio per la cena, che decidiamo di condividere anche con U Sein.
Questa sera festa grande a Banmaw: hanno saputo che ci sono due forestieri (io e Ale) e tutte le case e gli edifici pubblici danno fondo alle riserve di nafta per illuminare il paese.
Basta così poco per essere felici…

VENERDI' 29 LUGLIO 2005

La mattina dopo levataccia alle 5 e mezza per recarci al molo (una spianata di terra che costeggia l’Ayeyarwaddy) dove prenderemo il battello per Mandalay.
Il motore del pulmino del Friendship Hotel esplode sotto il mio sedile dopo nemmeno 5 minuti di marcia e un fumo nero esce dal cruscotto invadendo il pulmino.
L’autista cerca di riparare il guasto sul posto rovistando nell’impianto elettrico, tra fumo e cavi che sembrano messi lì a caso ma, vista la faccia perplessa, è chiaro che stiamo rischiando di rimanere altri due giorni a Banmaw.
Dopo 5 minuti di inutili tentativi, solo risciò a pedale attorno, l’autista scompare e torna miracolosamente con un pick- up.
Carichiamo gli zaini sul tetto del pick- up, io e Ale ci sediamo sui sedili anteriori mentre l’autista guida con la testa fuori dal finestrino perché piove e non vanno i tergicristalli: Frankie sta seduto sul tetto.
Il battello che ci porterà a Mandalay è un barcone cinese a 3 ponti: il primo ponte è un piccolo villaggio galleggiante, con tanto di ristorante, pentoloni di riso su fuochi di legna e tavolini di plastica con le sedie piccole tipiche da bambini, un piccolo mercato e in ogni spazio libero scatoloni e sacchi di riso.
Noi “alloggiamo” sul secondo ponte, nelle cabine di prima classe, 2 cuccette con un ventilatore elettrico (va solo quando il battello è in movimento) e due finestre chiuse da una zanzariera bucata che sembra il cimitero di tutte le specie volanti del Myanmar.
Il bagno, in comune per tutte le 8 cabine, è una latrina con un bidone e una ciotola per pulire la turca: ho sempre avuto il terrore dei ragni, strano che riesca ad espletare le mie funzioni fisiologiche sotto gli occhi di questi mostri appesi al soffitto.
Nella porta accanto il “locale doccia”, un altro bidone con un’altra ciotola e un canale di scolo che scarica direttamente fuori dalla fiancata del battello: noi due saremo i passeggeri più sporchi, visto l’andirivieni e i litri di bagnoschiuma tailandese che i nostri compagni di prima classe consumeranno a ritmo continuo.
Dopo circa 1 ora di traghetto entriamo in uno dei posti più belli che abbia mai visto: le gole a nord di Shwegu.
Si è alzato un forte vento e una pioggia calda che cade quasi orizzontale non tolgono nulla alla bellezza di ciò che ci circonda.
Il battello avanza piano in un percorso tortuoso, sembra quasi che allungando la mano fuori dalla balaustra, si possa toccare il fianco della montagna.
Qua e là nel verde intenso della giungla, umida per la pioggia, si vede del fumo e uno stupa, a ricordare che quella che sembra un’inaccessibile distesa di tronchi e foglie, in realtà offre riparo e da vivere alla gente del posto.
Le pareti sembrano vive anche per il continuo rumore che si sente, animali di ogni tipo lanciano i loro richiami, così chiari ma non localizzabili, tanto che tutta la gola sembra parlare.
Arriviamo a Shwegu verso le 10 del mattino.
Lungo il fiume la gente fa il bagno, si lava i denti e lava i propri vestiti: le donne senza togliersi il longyi, gli uomini semplicemente in pantaloncini o in mutande.
L’attracco al molo è frenetico, tutto avviene rapidamente: dai 2 banchetti di cibo si staccano 2 bambini che salgono sul battello e si lanciano nella prima classe per vendere da mangiare (sacchetti di patatine fritte fatte in casa, formiche comprese); scarichiamo persone e mercanzie, imbarchiamo altra gente e cesti enormi di banane verdi.
Un giovane poliziotto ubriaco attacca bottone dal molo.
Chiede a Frankie chi siamo e da quale paese veniamo, ci offre la sua protezione per il viaggio: vuole continuamente stringermi la mano e parla solo birmano, con Frankie che traduce.
Come diversivo, Frankie, ci porta due mele e un coltellino svizzero per sbucciarle.
Inizio a pelare la prima quando compare il poliziotto ubriaco: vuole ancora stringermi la mano e mi offre ancora la sua protezione.
Frankie si spazientisce, il tono della voce si alza, lo prende sotto braccio e ne esce un piccolo parapiglia in cui io sono in mezzo: mi accorgo che ho in mano il coltellino e rapidamente lo faccio cadere sulla sedia, sarebbe il colmo ferire per sbaglio un poliziotto ubriaco in un paese con la dittatura militare a diecimila chilometri di distanza.
Finalmente Frankie riesce ad allontanare il poliziotto, che ritroverò dopo poco tempo sul ponte inferiore sdraiato sui sacchi di riso a smaltire la sbornia.
Arriviamo a Katha per mezzogiorno e il caldo ormai è sopportabile solo stando all’aperto: la cabina, anche con il ventilatore acceso, è un forno crematorio.
Sale un ragazzino con i genitori: è tutto fasciato, ha la mandibola fratturata e profondi tagli sul torace.
Dalla traduzione che mi fanno capisco che sta andando a Mandalay per curarsi, è caduto da una palma da cocco.
Chiedo se hanno bisogno di aiuto o di farmaci per il dolore, ringraziano con gli occhi lucidi ma dicono che sono a posto, non so se sia la verità o se non si fidano delle medicine “occidentali”.
Passeranno il resto del tempo che ci separa da Mandalay nella cabina, i genitori che a turno vegliano il ragazzino facendogli aria con i ventagli di bambù.
La barca riprende la discesa dell’Ayeyarwaddy, molto lentamente, a occhio non supererà i 10 chilometri orari: il carburante costa troppo al mercato nero, dove puoi trovarne quanto ne vuoi, quello governativo a prezzo più basso è limitato.
Quindi usare motori poco potenti aiuta a rimanere nel budget.
La nostra lenta discesa dell’Ayeyarwaddy procede calma, tra una Myanmar Beer che ogni tanto Frankie porta dal ponte inferiore, e qualche snack birmano, patatine e banane verdi principalmente: come il sole inizia a calare l’atmosfera ritorna magica, la brezza della navigazione attenua la morsa dell’umidità, e il cielo si tinge d’oro.
Verso le 19 arrviamo all’ultimo approdo prima della notte: una breve stima della carta del Myanmar dice che dovrebbe essere Tagaung, subito confermata dalla traduzione che Frankie fa del cartello sul molo.
E’ ormai buio e io e Frankie scendiamo dal battello praticamente alla cieca per andare a cercare nel villaggio le provviste per la notte: attraversiamo un labirinto formato da gente ammassata che carica e scarica mercanzie dal battello, banchetti improvvisati di cibo, persone che dormono per terra come se fossero nel più bell’albergo di Birmania.
Le uniche luci che illumina il cammino sono le stelle (noi Occidentali possiamo comprendere cosa voglia dire un cielo stellato solo dopo averlo visto in un Paese tecnologicamente arretrato, una delle cose che noi tutti dovremmo invidiare è la mancanza di luce che toglie ogni bellezza a un cielo stellato) e le torcie elettriche di chi va e viene dal battello.
Si fa fatica a vedere dove mettiamo i piedi ed è un problema dal momento che dal molo al villaggio saranno 50 metri di palude, terra limacciosa che rimane con la bassa marea dell’Ayeyarwaddy, scavalcata da una serie di assi di legno, messe a zig- zag.
Riusciamo a raggiungere il villaggio, entriamo in un emporio locale, e per meno di 1 euro e mezzo acquistiamo 1 casco di banane, 3 litri di acqua, due birre e 2 aranciate.
Risaliamo sul battello, sembra che aspettassero proprio noi, appena mettiamo piede sul ponte tolgono gli ormeggi: mi piace pensare così, non sarebbe stato bello rimanere a terra.
Vorremmo brindare alla nostra amicizia con Frankie, sorseggiando la birra e parlando di quello che passa per la testa ma sarebbe più facile respirare sott’acqua.
Tutto ad un tratto compaiono milioni di insetti, un inferno di zanzare, moscerini e farfalloni, alcuni grandi come la mano di un bambino; esseri volanti ovunque, vicino agli zampironi, vicino alle luci, al buio, ti sbattono tranquillamente addosso come se fossi invisibile.
Non resta che coprirci di Autan e chiuderci in cabina, le finestre e le porte rigorosamente chiuse per via delle zanzariere bucate.
SABATO 30 LUGLIO 2005

Se mai viaggerete nel Sud- Est Asiatico, non portatevi la sveglia quando dormirete con la gente del posto.
Alle sei e mezza del mattino veniamo svegliati da ruggiti umani, chiunque si sveglia pulisce naso, laringe, trachea e polmoni fino all’ultimo alveolo, svuotando per terra, fortunatamente in questo caso nel fiume, litri e litri di fluidi organici.
Il paesaggio è cambiato, il fiume è più largo, almeno 1 chilometro da sponda a sponda, i villaggi più frequenti come anche gli stupa sulle colline, le barche con il carico di legname.
Da un monastero sentiamo cantare: tra poco saremo a Mandalay.