MOMA

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mercoledì 24 settembre 2008

15-19.8.08
E' bella Shanghai?
Non saprei dirlo. Non è la città che ti colpisce al cuore come possono essere Londra, New York o Tokyo, persino Phnom Penh. Una città piena di contrasti, sicuramente, ma assolutamente finta. L'impressione che ho avuto in questi quattro giorni è un paragone, magari esagerato, ma che continua a rimbalzarmi nella testa: un povero che, improvvisamente, diventa ricco e cerca di rimettersi al passo con la società contemporanea scopiazzando qua e là, un invidioso che cerca di dire “io sono uguale a te” ed evidenzia solamente il suo essere pacchiano. E dire che, più che un povero, Shanghai è una nobile decaduta, la città più importante del mondo insieme a New York e Berlino fino a prima della Seconda Guerra Mondiale.
A parte edifici mirabili come lo Shanghai World Financial Center di Pudong, i maestosi palazzi sul Bund, alcune zone della Concessione Francese e pochi altri grattacieli al di qua e al di là del fiume Huangpu, il resto della città è uno sfoggio di opulenza che ha lo stesso effetto di un pugno nell'occhio: l'Oriental Pearl Tower con le sue sfere infilzate, il Westin Hotel con la corona enorme, sproporzionata sulla sua sommità, le tenaglie del grattacielo Tomorrow Square, gli innumerevoli (veramente non si possono contare) grattacieli residenziali con il denominatore comune della parola luxury in bell'evidenza, molti già abitati e già vecchi, altrettanti in costruzione ovunque ci sia spazio (e dove non c'è le ruspe lo creano) e destinati ad avere migliaia di panni stesi sui terrazzi piccoli come cabine delle spiagge e condizionatori che pisciano acqua arrugginita nella strada sottostante. La caratteristica di Shanghai, peraltro che ho notato in tutte le altre città ma che qui è ancora più evidente, è che l'evoluzioen verso una città contemporanea non è avvenuta in maniera omogenea, quartiere per quartiere, ma a macchia di leopardo. Ti trovi in Xintiandi, il quartiere tra la Concessione Francese e la Città Vecchia, bar con gli ombrelloni come potrebbero esserci in una qualsiasi piazza italiana, Starbuck, panificio austriaco, ristoranti alla moda con prezzi da capitale europea: arrivi in fondo a quest'oasi, giri l'angolo e ti scontri contro un muro di odori, cibo cucinato in strada, gente che si lava sul bordo della strada, case buie, botteghe sporche con gente che mangia e bambini che dormono. Ti trovi in Nanjing Lu, strada di negozi delle migliori marche del lusso, Cartier e Rolex le prime che mi vengono in mente, al pari di una Fifth Avenue o Via Condotti, si avvicina un cinese che ti porta nella prima traversa, tra panni stesi tra facciate di baracche a non più di tre metri di distanza le une dalle altre, e ti mostra un negozio parallelo con la stessa merce, nascosta in doppifondi di armadi e scaffali, a un prezzo che talvolta arriva a un centesimo dell'originale. Ti trovi a Pudong, tra grattacieli che si sfidano nell'improbo tentativo di essere i più alti del mondo, tanto che spesso mentre sono ancora in costruzione vengono già superati dal progetto di qualche altro palazzo (vedi lo Shanghai World Financial Center), vedi passare le prime Ferrari, tra cui una Scaglietti, e a pochi chilometri di distanza, nei sotterranei della stazione della metropolitana del Museo della Scienza e della Tecnologia, ci sono centinaia di micro-negozi che dietro la facciata di souvenir vendono qualsiasi cosa possa essere contraffatta, dai cellulari Nokia agli orologi IWC, dagli I-Pod alle borse di Gucci (con tanto di catalogo che ti viene consegnato all'ingresso, suddiviso da un meticoloso indice iniziale, marca per marca).

A dire il vero un minimo di criterio sembra esserci nella modernizzazione di Shanghai e lo si può prevedere osservando la cartina: il nuovo impianto urbanistico prevede che il rinnovamento parta dalle strade principali, tutte che si intersecano perpendicolarmente, stradoni a tre, quattro corsie per senso di marcia. Tutto ciò che sta in mezzo a questi macro- isolati rimane indietro di 20-50 anni, come se le i grattacieli e i negozi scintillanti fossero come le facciate dei set cinematografici, un bello sfondo con dietro nulla.

La Concessione Francese.
Arriviamo in una mattina torrida, umida da togliere il fiato, troppo presto perché faccia subito colpo (i negozi aprono non prima delle 10 del mattino) e già troppo tardi perché il clima sia accettabile. Lunghi viali di platani, negozi chiusi, bar per la colazione nemmeno l'ombra. Ho come un deja-vù, mi sembra di essere in una strada di Hanoi, quella nella zona dell'ex carcere dei Comunisti di Ho Chi Minh, l'impronta è la stessa.
Sinceramente non c'è nulla di affascinante.
“Questa zona è per Shanghai il Marais, il Greenwich Village, anche Soho, ma è più carina e affollata” recita la guida. Sicuramente meno affollata, ci sono tornato anche una sera per bere una birra al Boonna Cafè (in Fuxingxi Lu, bello, raccolto con prezzi quasi da Yunnan, cibo ottimo e Internet wireless), c'è pochissima gente per le strade semibuie. Riguardo al “più carina” ho il dubbio che gli Autori non siano mai usciti dalla Concessione Francese. Le belle ville coloniali, quasi invisibili tra gli alti muri di cinta e i platani, sono state convertite in ristoranti di lusso, in club privati, in bar dove si suona musica jazz. Per il resto qualche boutique di creativi, soprattutto oggettistica e arredamento, negozi di DVD copiati e pochi altri bar (almeno nelle strade principali che abbiamo girato). Un museo negozio di oggetti vintage e altre reliquie della Rivoluzione Culturale scomparso rispetto a quanto riportato dalla guida di tre anni fa e una quiete che appare quasi strana per essere in Cina, come se la Concessione Francese sia ancora territorio Occidentale.

La Città Vecchia.
Se volete odiare Shanghai andate alla Città Vecchia. Se volete incontrare tutti i turisti Occidentali che ci sono a Shanghai andate alla Città Vecchia. Se volete non capire cosa è la Shanghai vecchia, andate in questo quartiere che si estende dalla riva sud-ovest del fiume Huangpu fino a Xintiandi, un dedalo di stradine circondata da un anello di strade a grande scorrimento, Renmin Lu a nord e Zhonghua Lu a sud. All'estremità nord, si entra nel peggio di Shanghai, eppure stipato di gente entusiasta, persa a fotografare gli edifici finto antico ricostruiti per l'occasione, a comprare improbabili souvenir a prezzi folli (dalla testa del Buddha alle campane tibetane), a fare la fila per mangiare ravioli tutti uguali in locali grandi come mense aziendali. Giusto il tempo per capire l'aria che tira e fuggiamo.

Xintiandi.
Il nuovo che avanza è rappresentato, oltre che da Pudong, da questo quartiere stretto tra la Città Vecchia e la Concessione Francese, a sud rispetto Renimin Square. Due isolati piccolini, tra Taicang Lu a nord e Zizhong Lu a sud, stretti tra le perpendicolari Madang Lu e Shungchang Lu, stipati di bar all'occidentale, ristoranti minimal-chic e boutique lussuosissime, con un unico denominatore comune: i prezzi tali e quali a Milano. Le case sono quelle originali dell'epoca, i tradizionali shikumen, “case dalle porte di pietra” a schiera affacciate su vicoli claustrofobici, due piani con un unico cesso, in fondo ad ogni vicolo, solo che sono state ristrutturate, sinceramente fedelmente, anche se sembra più di passare in una strada storica tipo Mirabilandia o Minitalia, EuroDisney o DisneyWorld tanto sembrano finte.

Moganshan Lu- Quartiere di Jingan.
Una strada che non sapresti nemmeno che esiste, che non è riportata sulle guide ma che sono il fiore all'occhiello della permanenza a Shanghai, di cui scopri l'esistenza, rimanendo in città pochissimi giorni e non vivendola, quasi per caso, contattando un amico che vive a Shanghai da anni e che te la mette tra i must see della città. Mi faccio portare dal taxi che mi lascia all'estremità sbagliata della strada, all'imbocco ovest di questa strada che fa una lunga curva verso sud- est.
Penso subito che ha sbagliato indirizzo (qui il tassista più bravo legge i le scritte in cinese con la lente d'ingrandimento, qualcuno ha difficoltà a leggere persino la propria lingua), che la strada si animi la sera tardi, che Shanghai cambia così in fretta che da quando mi ha spedito l'email non esista già più. Eppure Moganshan Lu è qui, è scritto sul cartello bilingue all'inizio della strada. Una lunga strada con un muro coperto da murales colorati a sinistra, una fabbrica massiccia a destra, quasi opprimente nonostante il colore blu e giallo della facciata, alle spalle grattacieli residenziali come tanti spilli, intorno fabbriche dismesse di cui è rimasto solo lo scheletro esterno, senza porte, finestre, tanto meno soffitti, pavimenti e tetti. Pattumiera rovesciata lungo la strada, sembra Napoli di qualche mese fa. Entro da una porta di servizio e mi ritrovo in un centro commerciale che vende esclusivamente mobili, letti, divani, una specie di grande magazzino di arredamento. C'è qualcosa che non torna, perché sarei dovuto arrivare sin qui, per vedere dei mobili?
Proseguo, intanto la sera arriva presto a Shanghai e alle 19 è già buio, e dopo la curva trovo ciò che mi era stato “promesso”. Le fabbriche della zona riconvertite in gallerie d'arte underground di artisti emergenti o già affermati. Questa zona, per quanto piccola e raccolta (poco più di un isolato), veramente non sfigurerebbe rispetto a Chelsea di Manhattan, un insieme di piccoli atelier di artisti, fotografi, con mostre temporanee, qualche bar abbastanza economico (per gli standard di Shanghai) e molti giovani.

Pudong.
E' una tappa necessaria, attirati magneticamente da quella sfilza di grattacieli che sembrano entrare in acqua e da quell'obbrobrio che è l'Oriental Pearl Tower, una Torre Eiffel che infilza delle sfere via via più piccole, una folla in coda per salire fino ai 350 metri e passa di altezza dell'ultima sfera, “la capsula spaziale”, per la modica cifra di 150 yuan.
Il modo più banale, scontato e da turista per arrivare a Pudong dal Bund è il Tunnel Turistico del Bund, una capsula che lentamente scivola sotto il fiume Huangpu, tra cerchi di luce, neon e manichini gonfiabili che si schiantano contro il vetro. Potrò mai farmi mancare un'esperienza simile? Giammai e pago volentieri i 40 yuan di biglietto, sola andata, per il ritorno ci attrezzeremo.
Per la prima volta a Shanghai non dobbiamo girare a vuoto per intere mezz'ore per cercare un posto dove fare colazione (farla allo Shanghai Mansion non se ne parla nemmeno, 180 yuan a testa, costa meno farla sulla Quinta Strada a Manhattan) perché ai piedi dell'Oriental Pearl Tower ci sono una serie di banchetti, già sovraffollati, che vendono cibo cinese, dagli spiedini ai ravioli, dai noodle alle zuppe, dai gamberi al pane cotto al vapore. Una pacchia! Per il resto a Pudong non c'è molto da vedere, tutto quello che si può visitare lo si vede dal Bund, resta indimenticabile la passeggiata, una via crucis per via del caldo, sul lungofiume che guarda il Bund, da cui si ha una vista impareggiabile degli splendidi edifici del secolo scorso. Si passeggia un po' tra i grattacieli, troppo con la testa all'insù per non vedere i lavori in corso che sono ovunque, con il rischio di inciampare in cavi, buche o di essere investito. Ci sono dei bellissimi esempi di architettura contemporanea La Jinmao Tower, con l'hotel più alto del mondo, il Grand Hyatt ospitato negli ultimi trenta dei suoi 88 piani, un grattacielo che ricorda vagamente una pagoda, circondato da un reticolo che rende indefiniti i suoi bordi. Ma soprattutto, lo Shanghai World Financial Center, un parallelepipedo di cristallo che si torce in cima, tutto di cristallo, con un foro rettangolare per diminuire la superficie della sommità esposta al vento: originariamente il progetto prevedeva un foro rotondo ma da lontano avrebbe ricordato troppo la bandiera del Sol Levante degli odiati cugini.

Shanghai by night.
E' però di notte che Shanghai dà il meglio di sé, soprattutto se ha appena piovuto e le mille luci bianche e rosse dei taxi, verdi o rosse dei semafori, bianche dei grattacieli si riflettono sull'asfalto nero e lucido per la pioggia. Shanghai di notte diventa meravigliosa, seducente e sicuramente fonte di nostalgia una volta partiti. Come mai questo contrasto tra il giorno e la notte?
Di notte rimane solo la sostanza degli edifici, le forme sono disperse nel buio, i mostri verticali tutti uguali e tutti già vecchi si nascondono dietro l'illuminazione delle finestre o di giochi di luci creati apposta per colpire. Certo, qualche segno del kitch che è il leit-motive di un certo tipo di riurbanizzazione di Shanghai spicca ancora di più, come la Corona del Westin o l'Astronave in cima all'hotel Radisson. L'atmosfera è resa ancora più intrigante dalle sopraelevate che attraversano il centro di Shanghai, serpenti concatenati che di notte si accendono di viola, dandomi l'impressione di essere proiettato in un film di fantascienza.

lunedì 18 agosto 2008

La Diga delle Tre Gole.

Il primo a pensare a uno sbarramento del fiume Yangtze fu il fondatore del Partito Nazionalista Sun Yat-sen nel lontano 1919 ma fu solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che il progetto prese forma.
Fu scelta l'area attorno al villaggio di Sandouping per la conformazione stabile del territorio, costituita da granito e per l'ampia vallata.
I lavori iniziarono nel 1992 e il 1° giugno 2003 fu chiuso definitivamente il corso dello Yangtze, alzando il livello delle acque a monte della diga di 135 metri. Nell'ottobre di quest'anno le acque raggiungeranno il livello stabilito di 175 metri rispetto all'altezza originale, per terminare i lavori definitivamente nel 2009, dopo 17 anni di scavi, drenaggi e blocchi temporanei del fiume che hanno impiegato ventimila operai.

Come i Cinesi vanno orgogliosamente raccontando, la Diga delle Tre Gole stabilirà una serie di record del mondo:
1.la diga più grande del mondo, con un'altezza di 185 metri , spessa 130 metri alla base e 18 metri sulla sommità;
2.la diga che produrrà il maggior quantitativo di energia elettrica, 82 miliardi di chilowatt/ora all'anno, prodotta da ventisei megaturbine da 700 megawatt e del peso di 400 tonnellate l'una.

Il costo dell'opera si avvicina ai venti miliardi di euro, di cui quasi la metà impiegati per ricollocare villaggi, città, industrie, fattorie e un milione e quattrocentomila abitanti delle zone sommerse. Infatti, l'area che è già scomparsa sotto le acque, sommata a quella che verrà sommersa entro un paio di mesi, è di oltre seicento chilometri quadrati (di cui 24.500 sono ettari dedicati all'agricoltura), con ripercussioni fino a Chongqing che dista seicento chilometri dallo sbarramento. 13 città, 140 paesi, 1352 villaggi e 657 industrie.

Come recuperare questi soldi? Nel modo più semplice possibile, facendolo pagare ai cittadini attraverso tasse: la metà dei 180 miliardi di yuan proviene su una tassa di 0,3-0,5 centesimi di yuan su ogni chilowattora consumato, tranne che per le zone “disagiate”, quali il Tibet che, sicuramente, non potranno beneficiare dell'energia prodotta. Il resto proviene dall'energia prodotta dalla diga stessa a partire dal 2003, quando il corso del fiume è stato bloccato.

Il motivo ufficiale per cui la diga è stata costruita è essenzialmente uno, il controllo delle piene dello Yangtze, devastanti, capaci di causare migliaia di morti (oltre centomila in occasione di una piena nel Novecento) e danni calcolabili nel valore stesso della diga, giustificazione aggiuntiva all'immane impegno economico. La diga potrà controllare il 90% delle piene, fungendo da raccolta di acqua durante la stagione delle piogge, quando il livello delle acque raggiunge il valore massimo di 175 metri, e da riserva da distribuire durante la stagione secca, quando il livello scende a 145 metri.

Secondariamente la diga serve per produrre energia elettrica, necessaria alla Cina per sostenere uno sviluppo economico che non ha eguali al mondo. Inizialmente, nel 1992, pensata per garantire il 15% dell'energia necessaria, la crescita economica galoppante ha ridotto questo margine a meno del 5%, c'è chi dice dell'1%, servendo un territorio in un raggio di 1.000 chilometri, fino alle città trainanti l'economia cinese come Shanghai, Hong Kong e Shenzen, oltre a tutti i capoluoghi di provincia che creano i prodotti da vendere in tutto il mondo, Chongqing, Wuhan, Chengdu, ecc.

Infine, uno dei motivi per cui la diga è stata pensata è di rendere navigabile senza problemi il tratto alto dello Yangtze, a monte delle Tre Gole fino a Chongqing: dove prima il fiume procedeva a zig zag attraverso gole profonde centinaia se non migliaia di metri, piene di secche, gorghi e con una corrente impazzita, ora è un'autostrada dove qualunque imbarcazione può navigare in tutta tranquillità, il corso quasi rettilineo e ampio, le pareti verticali sono scomparse, sommerse dalle acque e le pareti delle Tre Gole sono dei dolci pendii, sembrano quasi colline. In questo modo potranno passare anche navi da 10.000 tonnellate invece delle solite imbarcazioni da 3.000. Dove prima erano solo i comandanti di nave più esperti a poter e saper passare, conoscendo quasi a memoria ogni singolo metro del fondo del fiume, conoscenze passate di generazione in generazione, ora qualunque persona in grado di far stare a galla un canotto sarà in grado di passare, come dicono preoccupati i marinai più esperti, preoccupati per il loro posto di lavoro.

Naturalmente ci sono una marea di aspetti negativi, tanto di natura economica, sociale e culturale quanto, soprattutto, di natura ecologica.

1.i sedimenti. Lo Yangtze, durante la stagione delle piogge, assume il classico colore marrone per via della terra che raccoglie nei 4000 chilometri precedenti, dal Tibet alle Tre Gole, sedimenti sempre maggiori anche per via del disboscamento selvaggio che stato condotto dagli abitanti nelle regione montagnose con la conseguenza che non ci sono alberi a trattenere il terreno. Questi sedimenti possono accumularsi alla base della diga e renderla inutilizzabile entro cinquanta- settant'anni. Vari studi sono stati condotti per ovviare all'accumulo di sedimenti e tra questi è stato proposto di aprire degli scarichi nella parte bassa della diga, dove si accumuleranno i detriti;
2.le frane che costantemente interessano il corso dello Yangtze che possono far alzare ulteriormente il livello delle acque facendo tracimare il “reservoir”;
3.i terremoti: una prova di resistenza è avvenuta a maggio di quest'anno con il devastante terremoto nel Sichuan, a 700 chilometri di distanza. Sembrerebbe che delle crepe si siano formate (anche se c'è chi dice che c'erano già, mettendo in dubbio la qualità dei materiali utilizzati);
4.l'inquinamento delle acque: la zona a monte delle Tre Gole è una delle più industrializzate della Cina, tanto che Chongqing è soprannominata la “dinamo del Sud- Ovest” per la sua importanza nell'economia cinese della regione. Le regolamentazioni per quanto riguarda gli scarichi industriali sono un risultato degli ultimissimi anni ma, se le grosse industrie si sono attrezzate per evitare di riversare gli scarichi nel fiume, o quanto meno trattarli prima di farlo, ci sono migliaia di industrie lungo il fiume che continuano ad avvelenare un fiume che ora rimane bloccato dalla diga. Con tutte le conseguenze per la pesca e l'agricoltura a monte della diga;
5.carenza idrica: paradossalmente, la diga potrà avere una conseguenza inattesa e non calcolata, la scarsità di acqua nella zona del reservoir. Se prima della diga il corso dello Yangtze era protetto da pareti verticali di roccia alte centinaia di metri, il sole arrivava all'acqua solo per poche ore durante il giorno, ora che il livello dell'acqua si è alzato tutta questa immensa massa è esposta praticamente dall'alba al tramonto al sole con la conseguenza che si ha una continua e lenta ma inesorabile evaporazione, accelerata dal vento che corre nella gola come in una galleria. Scarsità d'acqua che a lungo andare creerà danni all'agricoltura e all'approvvigionamento idrico di milioni di abitanti della zona;
6.malattie: la minaccia più grande della diga, più che gli attentati terroristici, più che il crollo, saranno le malattie portate dall'acqua, malattie di cui in queste zone c'è un vago ricordo. Colera e tifo per l'inquinamento delle acque ma soprattutto la malaria, in quanto questa immensa palude diventerà il terreno di coltura ideale;
7.problemi per la fauna: per alcuni animali il destino si è già compiuto, per quelli che non hanno avuto il tempo o le capacità di spostarsi lungo le pendici delle montagne a cercare un nuovo habitat e hanno visto scomparire il loro terreno di caccia e i loro ripari sotto le acque. Per i pesci il rischio estinzione di alcune specie è già una grave minaccia: alcuni pesci sono abituati a risalire la corrente del fiume (un po' come i salmoni) per espletare alcune fasi biologiche, la diga rappresenta una barriere insormontabile. Ma, soprattutto, l'innalzamento del livello delle acque porterà a un impoverimento dell'ossigeno presente nell'acqua, in quanto gli strati profondi non avranno il ricambio necessario;
8.Shanghai: alcuni dei problemi si avranno anche a migliaia di chilometri di distanza, dove il fiume si getta nell'Oceano Pacifico in corrispondenza di Shanghai. Si prevede una progressiva salinizzazione delle acque dello Yangtze per una certa estensione nell'entroterra in quanto la massa d'acqua che si riverserà alla foce non sarà in grado di contrastare quella che dal Mar Cinese Orientale spinge verso la costa. Salinizzazione delle acque che comporterà distruzione, o comunque impoverimento, delle colture, carenza di acqua potabile (per quanto possa essere potabile l'acqua in queste zone) e danni causati dall'aria carica di sali;
9.ricollocamento della popolazione: alla fine si pensa che saranno stati ricollocati poco meno di un milione e mezzo di abitanti della zona sommersa dalle acque, con una spesa che da sola ha assorbito il 40 per cento del costo della diga. Non è solo un problema di costi, la conseguenza principale è che, se i giovani (come la guida che ci ha accompagnato al villaggio ricollocato) sono stati contenti di essere “ricollocati” in quanto si sono ritrovati con case più ampie, con servizi igienici degni di questo nome, adattandosi con facilità a uno stile di vita “occidentale”, c'è tutta una moltitudine di abitanti, adulti e anziani che da generazioni vivono in baracche buie e umide, senza servizi igienici né fognature, abituate a guadagnarsi da vivere con quello che le proprie mani sono in grado di produrre. C'è il problema, enorme, di ricreare un posto nella società per queste persone, insegnar un lavoro nuovo ai contadini o ai pescatori che si ritroveranno in città.
10.disponibilità di terra: se a valle della diga cambierà poco, con le terre coltivate o abitate persino più protette da alluvioni devastanti, a monte l'innalzamento delle acque ha sottratto oltre seicento chilometri quadrati di terra in una zona con montagne impervie, quindi questa terra sommersa rappresentava quasi l'unica zona coltivabile o sfruttabile dalle Tre Gole fino a Chongqing;
11.perdita del patrimonio culturale: lo Yangtze è la culla della civiltà cinese al pari del Fiume Giallo a nord. Alcuni reperti culturali, da templi a semplici scritte sulle pareti delle montagne sono stati “ricollocati” più in alto ma la maggior parte, per non dire la quasi totalità è stata sommersa, magari una perdita insignificante per il turismo che non ne è a conoscenza ma inestimabile se per patrimonio culturale si intende ciò che fa parte della storia della singola comunità. Tombe di antenati, i templi dei villaggi, divinità protettive, tutte sommerse se non si è avuto il tempo di spostarle. Oltre alla perdita del Patrimonio Culturale esistente, gli scavi lungo l'argine per consolidare il nuovo letto del fiume hanno portato alla scoperta di moltissime altri tesori del passato, alcuni salvati, altri lasciati sott'acqua;
12.problemi di sicurezza nazionale: sicuramente la Diga, in caso di guerra o di terrorismo contro la Cina, sarebbe uno degli obiettivi primari sia per la spettacolarità del gesto sia perché causerebbe un black- out energetico (per quanto progressivamente l'apporto di energia elettrica si stia percentualmente contraendo) nella zona industriale per eccellenza del Paese, sia perché causerebbe un'ecatombe;
13.corruzione: recentemente c'è stata un'esecuzione capitale di un funzionario pubblico che aveva intascato bustarelle per un appalto di costruzione della diga. La corruzione, problema endemico non solo in Italia ma, soprattutto, in Asia, ha trovato nuova linfa vitale in questo progetto titanico, con budget titanici, anche se gli inflessibili tentativi di moralizzazione del nuovo capitalismo alla Cinese stanno cercando di contenere il fenomeno;
14.turismo: ora che le Tre Gole non ci sono più, il turismo in questa che era una delle zone più belle della Cina è a serio rischio. Personalmente non mi sentirei di consigliare a nessuno una crociera lungo lo Yangtze per vedere la Tre Gole, soprattutto dopo aver visto la Gola del Balzo della Tigre. Manca pathos, manca il brivido delle pareti verticali che sembrano toccare i fianchi delle navi, manca sentire la Natura che ti avvolge, il pericolo di una secca o di un gorgo. Ma questo è un discorso egoistico, i tempi moderni hanno bisogno di autostrade per le macchine, non vedo perché lo Yangtze debba rimanere un fiume tortuoso e pericoloso al traffico di merci e persone.
Con il pragmatismo e cinismo che contraddistingue da sempre i Cinesi, i turisti possono andare da un'altra parte.
14.8.08 h 18.30
Shanghai

Anche nelle stazioni dei treni sono esagerati questi cinesi. Situata nella periferia nord- est di Nanjing, quasi vicina alla collina che ospita il Mausoleo di Sun Yat-sen, la stazione ferroviaria si presenta come un terminal aereoportuale: una struttura tubolare in acciaio e vetro, grandi rampe di accesso su due piani per gli autoveicoli, una vasta lobby centrale, alta e luminosa, soglia con i soli sportelli per i biglietti. Una serie di scale mobili portano alle sale di aspetto, tipo aereoporto, dove ci sono i gates divisi per treno in partenza. Una ventina di minuti prima della partenza del treno, si aprono i cancelli e si scende ai binari, con tanto di indicazioni luminose sulla posizione del convoglio.
Il treno D409, il diretto Nanjing- Shanghai non ha niente a che vedere con i treni che si vedono ogni tanto sferragliare per le città della Cina centrale, vagoni arrugginiti con i finestrini abbassati e un'Umanità intera stipata: questi sono vagoni lindi, posti assegnati, toilette con lavandini e asciugamani elettrici, tavolini e aria condizionata che non dà fastidio.
Mentre il display luminoso indica la velocità del treno (intorno ai 250 km/h) e la temperatura esterna che, man mano ci si avvicina a Shanghai, sale fino a 38°C, fuori dal finestrino scorre velocemente una campagna dove, in mezzo a campi coltivati che diventano via via più piccoli, ci sono gru per il trasporto container, industrie, anonimi capannoni industriali e adibiti a uffici.

Niente di che la stazione di Shanghai, a nord di Suzhou Creek (il torrente che, scorrendo da Ovest a Est, confluisce nel fiume Huangpu, tributario dello Yangtze), me l'aspettavo più maestosa e pregna del passato glorioso della città. Se Nanjing era caotica, Shanghai è un unico ingorgo di automobili, i taxi partono da 11 yuan (come sono lontane le corse in auto per lo Yunnan o il Sichuan a 3 yuan) e si fa in fretta a spendere 2-3 euro (2-3 EURO!!) per arrivare in un posto qualunque della città.

L'hotel prenotato in città è lo Shanghai Mansion, ex Broadway Mansion, proprio alla confluenza del Suzhou Creek con il fiume Huangpu, un edificio in stile decò di 19 piani che, quando fu costruito nel 1933, era il più alto nel continente Asiatico: dopo la guerra divenne sede dei corrispondenti stranieri, al pari di un hotel Rex o Continental a Saigon. Una struttura molto newyorkese, mattoni marroni che quasi nascondono le finestre delle camere, strutturato a gradoni. La hall piccola ma splendida, marmi e cristalli, un servizio impeccabile, come l'Inglese parlato da chiunque lavori qui dentro.
“Upgrade to business room” ci dicono alla reception e la camera al 15° piano, sebbene non abbia la vista su Pudong e sul Bund, certamente più affascinante, rende bene l'idea della profonda trasformazione ancora in atto a Shanghai, squallide case basse, fatiscenti, ancora per poco circondate da grattacieli, fin quando una ruspa, volente o nolente, farà spazio per far crescere ancora più in verticale la città. La camera (intorno ai 60 euro) è un vero gioiello, con i caloriferi in ghisa color argento dell'epoca, testimoniata da una targhetta di ottone con stampato l'anno di costruzione.



Usciamo per andare sul Bund, Waitan per i Cinesi o Zhongshan Dongyi Lu nella toponomastica della città, il lungofiume che è una vera e propria vetrina del passato coloniale della città, il più importante avamposto delle potenze Occidentali tra le Guerre dell'Oppio e gli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, quando i Giapponesi invasero la città. Una galleria d'arte architettonica, con palazzi che non sfigurerebbero nei centri storici delle capitali europee. Ognuno ha una storia da raccontare: il Peace Hotel, ex- Cathay Hotel, già Sasson House, costruito da Victor Sassoon, Inglese di origine Irachena, hotel storico con leggende da raccontare, al pari di un Savoy a Londra o di un Ritz a Parigi; la Bank of China, accanto al Peace Hotel, progettata per avere due torri gemelle ma rimasta monca perché Victor Sassoon non volle che ci fosse un altro edificio più alto della sua residenza; la Sede della Dogana e l'ex Hong Kong e Shanghai Bank, i due edifici più belli in assoluto del Bund, il primo con una torre dell'orologio sulla sommità che suona le ore come il Big Beng (anche se durante la Rivoluzione Culturale l'orologio venne sostituito da altoparlanti che diffondevano canzoni e slogan comunisti), il secondo più basso e largo, con una bellissima cupola centrale e degli affreschi nell'atrio centrale, anche se abbastanza pacchiani o, comunque, restaurati male, dal momento che sembrano appena fatti, che rappresentano le sedi delle città in cui la banca era presente.

Se da un lato c'è il Bund con la sua storia recente cronologicamente ma lontanissima da un punto di vista culturale, se in mezzo c'è una moltitudine attualissima di venditori ambulanti di acqua ghiacciata, pupazzi di gomma deformabili, accattoni con bambini luridi sulle spalle (un tempo attività proibitissime dal Partito Comunista Cinese), al di là del fiume Huangpu c'è il futuro di Shanghai: Pudong. Quella che fino a 15-20 anni fa era una risaia, ora ospita alcuni dei grattacieli più alti del mondo, alcuni pacchiani come la Oriental Pearl Tower, una serie di sfere infilzate da una torre centrale, altri splendidi come la Jinmao Tower e lo Shanghai World Financial Center (o Mori Building, cugino delle Mori Tower di Roppongi a Tokyo, probabilmente con lo stesso proprietario), un edificio altissimo la cui sommità è aperta al centro in un quadrato che ricorda una bandiera. Nei progetti originali il quadrato doveva essere un cerchio ma avrebbe ricordato la bandiera del Giappone, per cui furono cambiati i piani i costruzione. Il fiume Huangpu circonda con un semicerchio quella che sarà la Shanghai del XXI secolo che cresce a ritmi vertiginosi, nel giro di poco più di un decennio quella che era una distesa piatta senza soluzione di continuità fino al mare, si sta riempiendo di grattacieli, il lungofiume è già stipato di edifici come degli aghi conficcati su un portaspilli.

Lasciamo il Bund circa a metà, tra il Peace hotel e il Palace Hotel per entrare in Nanjing Lu, “la via dello Shopping n° 1 in Cina”, una strada all'inizio percorsa da un traffico caotico, poi pedonale, stipata di negozi e boutique. La prima parte, quella trafficata, è un susseguirsi di negozi che copiano i marchi di prestigio come Lacoste, Valentino e Adidas, con nomi di fantasia, la parte pedonale è la vetrina degli stilisti, degli orologiai e gioiellieri più famosi. Anche qui non manca chi ti avvicina, perché Occidentale, proponendoti di seguirlo in una strada secondaria, dicendo sottovoce “Watch, bag, sunglasses”. Seguiamo un ragazzo per curiosità, sapendo già che ci porterà nella mecca del falso, e lasciamo Nanjing Lu per entrare in un vicolo perpendicolare dove sembra lontana anni luce la Shanghai ipermoderna di pochi metri prima, case fatiscenti, canali di scolo maleodoranti, panni stesi tra una casa e l'altra. Una bussata alla porta di una casa, un occhio che si vede al di là dello spinoncino e si apre un negozio stipato di borse Gucci, Louis Vitton, Prada, occhiali di marca, orologi Langhe & Sons, Cartier e gli immancabili Rolex, scarpe Nike, Prada e Puma, cinture, valigie, magliette, abiti. Tutto ciò che si può trovare in una boutique è esposta in pochi metri quadrati resi ancora più claustrofobici dalla gente che continua a entrare, dopo la solita procedura di riconoscimento all'ingresso, tre tocchi alla porta, osservazione dallo spioncino e apertura.

Arriviamo in Piazza Renmin, dove a cavallo tra Ottocento e Novecento c'era un ippodromo ora c'è un parco e i soliti grattacieli disposti ad anello, che sembrano arrestarsi bruscamente ammassandosi gli uni accanto agli altri ai bordi di questo spazio, trasmettendo la stessa sensazione che si ha osservando Midtown a Manhattan da Central Park. Al centro della piazza c'è l'interessantissimo Museo di Urbanistica di Shanghai (30 yuan) dove è ripercorso lo sviluppo architettonico della città, da prima delle Concessioni fino al futuro prossimo, con i grattacieli che ancora devono nascere a Pudong e un'installazione temporanea sull'Expo che si terrà in città nel 2010. Incredibile è il plastico del terzo piano dove, in scale, è riprodotta, in maniera assolutamente fedele e dettagliatissima, l'intera città di Shanghai, palazzo per palazzo, strada per strada, persino i dettagli dei tetti degli edifici.

Shanghai è anche i constrasti che ci sono tra una strada e l'altra. In una strada sei circondato da Boutique Rolex, grattacieli di banche e multinazionali, giri l'angolo, come lasciando Piazza Renmin e incamminandosi verso Suzhou Creek, dove ci sono una catena ininterrotta di botteghe surriscaldate e umide di materiale meccanico ed elettrico, la solita moltitudine di persone affaccendate in cosa non si sa mischiata ad altra che attende semplicemente che passi il tempo, tra una sigaretta, un sorso di the e una partita a carte.

Per la cena ci affidiamo alla guida Time- Out. La ricerca delle “Vie del Gusto” ci porta in Yunnan Lu, la strada dei ristoranti e banchetti a sud di Renmin Square, al confine tra la Città Vecchia e Xintiandi. Troviamo un ristorante che serve piatti freschi da cucinare in un brodo “primordiale” direttamente al tavolo. Tra i vari piatti che ordiniamo uno ci fa pentire di essere carnivori: gamberi vivi, che si muovono nel piatto e di cui accorciamo l'agonia gettandoli nel brodo bollente. Non riusciremo che a mangiarne qualcuno.

venerdì 15 agosto 2008

13.8.08 h 17.10
Nanjing

Nanjing, Nanchino in Italia, significa “Capitale Meridionale” e si contrappone a Beijing, Pechino o “Capitale Settentrionale. Capitale dei vari regni Cinesi e dei ribelli Taiping poi, è ancora considerata la vera capitale dai cinesi di Taiwan.
Città sterminata, enorme, caotica, con un traffico statico, un cantiere unico quasi che la speculazione edilizia e i grattacieli di uffici e appartamenti si sia svegliata da poco tempo.
Delle tre “fornaci della Cina” solo Chongqing per il momento ci ha dato tregua, anche Nanjing non smentisce il suo nome e fiacca ogni slancio sul nascere. Usciamo presto, dopo una colazione abbondante per 30 yuan a testa, con tanto di gnocchi al pomodoro, gnocchi veri, di semola: mah... le stranezze della Cina!

A nord-est della città, pochi chilometri in linea d'aria, un viaggio infinito in taxi in mezzo al traffico, si trova Zijin Shan o Monte d'Oro Purpureo che ospita i maggiori luoghi di interesse di Nanjing: un Palazzo del XIV secolo con pagoda annessa, la tomba del fondatore della dinastia Ming e il Mausoleo di Sun Yat-sen, il fondatore della Cina repubblicana e primo presidente, l'unico eroe riconosciuto tanto dai Comunisti quanto dai Nazionalisti del Kuomintang di Taiwan. Uno splendido paesaggio, in mezzo a montagne coperte di nebbia (tanto che la città a pochi chilometri non si riesce a vedere), sinceramente sprecati gli 80 yuan a testa per accedere al Mausoleo, in cima alla collina dopo una scalinata di marmo lunga 700 metri con 392 scalini, dove c'è una statua dell'eroe e la sua tomba. Un caldo infernale, maglietta e pantaloni intrisi di sudore, meglio non mettere i pantaloncini corti che mostrerebbero il mio tatuaggio sul polpaccio sinistro con la bandiera del Giappone, qui dove nel 1937 sono stati massacrati dall'esercito nipponico oltre trecentomila civili inermi, soprattutto anziani, donne e bambini, in sole sei settimane.

Cerchiamo di arrivare all'altro simbolo della Cina comunista, un vero e proprio orgoglio nazionale del periodo di Mao: il celebre Ponte di Nanjing sul Fiume Yangtze. Un autobus con aria condizionata a temperatura glaciale, che piscia acqua dai bocchettoni e bagna tutto il pavimento, impiega un'ora per attraversare la città e portarci sul fiume, ma ben più a sud di dove si trova il ponte. Cambio di mezzo e un taxi arriva nel parco cui si accede al ponte (7 yuan per il parco, 8 per salire sul ponte). Un ponte che sa di vecchio, orgoglio dei Cinesi perché l'hanno eretto tutto da soli, dopo che i Sovietici si ritirarono dal progetto, in circa 9 anni: “luogo di incontro delle Genti di tutto il Mondo” come recita l'opuscolo, con vari capi di Stato fotografati insieme a Mao, Deng Xiao Ping e altri eminenti politici del Partito Comunista Cinese. Il parco è ospitato tra i pilastri di sostegno della ferrovia che corre trenta metri sopra, un lungo filare di piloni di cemento armato che si perdono nella nebbia. Ogni sponda del fiume ha due torri con una bandiera rossa illuminata in cima, dove si trovano le piattaforme di osservazioen del ponte: peccato che si possa vedere solo il lungo serpentone di automobili che, a passo d'uomo, stanno entrando a Nanjing. effettivamente è un'opera titanica, il fiume in questo tratto è largo oltre un chilometro e mezzo e le acque dello Yangtze, anche se sembrano placide, hanno sempre una forza impressionante.



Ma il vero fiore all'occhiello di Nanjing è il Monumento alla Massacro di Nanchino, situato fuori dalle mura della città, nella zona sud- ovest.
Tra il dicembre del 1937 e il gennaio del 1938, dopo la conquista di Shanghai da parte dell'esercito Giapponese, cadde anche Nanjing e i soldati nipponici si abbandonarono ad atrocità inaudite e senza motivo, che andarono ben oltre la “morale” della guerra, se proprio si vuole trovare una giustificazione e un'etica, una condotta accettabile nella guerra. I soldati Giapponesi uccisero bambini, violentarono in gruppo ragazze, donne adulte e anziane, uccisero donne incinte e squarciarono loro l'addome per togliere il feto dall'utero (con tanto di fotografie), fosse comuni con migliaia se non decine di migliaia di morti. Nonostante i vari tentativi di normalizzazione dei rapporti Sino- Giapponesi da parte dei Presidenti del Partito Comunista di turno, i Cinesi non vedono ancora di buon occhio i cugini con gli occhi a mandorla per il motivo che i Giapponesi ancora non hanno riconosciuto il Massacro, addirittura definendolo un'esagerazione se non una finzione, nonostante le fotografie e le testimonianze rese dei stessi autori del massacro. Ogni tanto esplode l'intolleranza nei confronti dei Giapponesi, come quando l'ex- premier Koizumi si recò nel Tempio Shintoista di Tokyo dove, insieme alle tombe degli eroi del Giappone Antico ci sono anche quelle di qualche gerarca militare della Seconda Guerra Mondiale, responsabile più o meno direttamente del massacro; oppure come quando uscirono dei testi scolastici giapponesi in cui si negava il massacro di Nanchino.

Il Monumento, situato in una zona degradata, tra meccanici e botteghe che lavorano il vetro, baracche e case a un piano fatiscenti e con un odore di urina e sporco per le strade, è un edificio anonimo, basso, grigio scuro, che sembra una scuola e senza nessun cartello a indicarlo. Sorge nel sito dove ritrovarono una fossa comune con sepolti più di diecimila corpi.
La struttura è un misto tra il Mausoleo dell'Olocausto Armeno a Yerevan e il Museo dell'Olocausto degli Ebrei a Berlino, quello progettato da Liebskind.
La piazza centrale, tutta sassolini con una grande rampa a punta che guarda i grattacieli di Nanjing, un muro nero da cui scende un velo di acqua, con scritto in tutte le lingue del mondo “300.000 VITTIME”, nonostante i cartelli che invochino al silenzio e a un comportamento rispettoso c'è un vociare di fondo tipico della Cina e qualche sputo qua e là. L'interno del museo (gratis!) è un escursus fotografico con commenti in cinese, inglese e giapponese, sui fatti che portarono alla guerra sino- giapponese degli anni Trenta, all'invasione di Nanchino, al massacro e al processo, poi, di alcuni dei responsabili
In un altro padiglione, una spianata enorme, ci sono gli scavi con alcuni corpi, ormai ridotti a scheletri, così come furono trovati.
In una sala di passaggio ci sono le corone di bambini giapponesi con i celebri origami a forma di cigno, quasi in disparte come se non fosse sufficiente per riconoscere ciò che è stato compiuto.
Sembra il Monumento all'Olocausto Armeno per via delle forme spigolose degli spazi all'aperto, due piramidi di pietra nera che fanno da ingresso, una costruzione squadrata bassa che ospita il museo, una croce cristiana con scolpita la data di inizio e fine del massacro, come se ci potesse essere una parola “fine” nella memoria dei sopravvissuti. Il ricordo del Museo di Liebskind a Berlino invece è all'interno, ampi spazi bui con piccole luci led e la solita scritta luminosa bianca sul soffitto “300.000 VITTIME” e, al posto dei nomi degli ebrei, la foto delle vittime cinesi del massacro che ogni cinque secondi vengono proiettate sul muro. Un'altra sala “12 SECONDI” ricorda l'angolo con i dischi di ferro sul pavimento del Museo di Berlino, solo che ogni 12 secondi si sente il rumore di una goccia d'acqua che cade e si accende una piccola fotografia sul muro: in 6 settimane verranno ricordati tutti i martiri.
L'atmosfera è sempre la stessa che respiro nei vari luoghi dove si “celebra” la follia dell'Uomo, dove si scende dal genere umano per entrare in un incubo: i campi di concentramento sparsi per l'Europa dell'Est, Tuol Sleng a Phnom Penh con i Killing Fields, il Monumento del Genocidio Armeno a Yerevan, il Giardino della Pace a Hiroshima. I morti sono morti, non importa da che parte stiano, rimane solo un monito affinché la follia non si ripeta. Non so perché sono attratto da questi posti, non è morbosità, non è nemmeno curiosità, forse semplicemente voglia di sapere fino a che punto possiamo spingerci con la crudeltà, andare oltre a un libro letto sull'argomento, vedere le reazioni della gente come me davanti a certi fatti, se anche loro sono colpiti allo stesso modo.

Per cena cerchiamo un posto nella zona centrale di Nanjing, proprio dietro all'hotel, Xinjiekou, il cuore geografico e commerciale della città, con la direttrice nord- sud che è Zhongshan Lu. Uno svavillio di luci di grandi magazzini e grattacieli luminescenti, maxischermi agli angoli degli edifici stanno proiettando la partita delle Olimpiadi Cina-Brasile, immobilizzando lungo la strada tassisti e passanti, tutti con lo sguardo all'insù. Come in tutte le città della Cina finora visitate, non c'è la separazione tra zona commerciale moderna e la città originale, anche qui ci sono le strade principali con negozi e catene di ristoranti, e vie buie con locali adibiti a ristorante, soprattutto di pesce qui a Nanjing.
12.8.08
Wuhan

Wuhan non è solamente una fornace, è un forno al vapore in cui cuoci lentamente, l'aria è pesante, irrespirabile, bollente e umida. Bastano pochi passi per essere già completamente bagnato, il sole implacabile e coperto dalla solita foschia accende il cielo come in quei soffitti bianchi illuminati dalle lampade al neon.
Il “Bund” di Wuhan si trova nel distretto di Hankou, rinominato Yanjiang Dadao, è una copia in piccolo di quello molto più importante, anche storicamente di Shanghai. Anche Wuhan fu sede delle Concessioni Straniere a cavallo tra il 1800 e il 1900 ma, purtroppo, gran parte degli edifici neo-coloniali furono rasi al suolo dalle varie rivolte e sommosse popolari che infestavano la Cina pre-Mao.
Comunque rimane una bella passeggiata, purtroppo guastata da un caldo feroce, quasi “Birmano” o, forse, non siamo più abituati a un certo caldo dopo il fresco dello Yunnan o le temperature accettabili che abbiamo incontrato fino a qui. Il lungofiume, “Bund”, è un bel viale alberato dove gli abitanti di Wuhan vengono a cercare un po' di pace dal sole, c'è chi è sdraiato sulle panchine di marmo all'ombra delle piante, chi si inoltra nella vegetazione che arriva direttamente al fiume, lasciata crescere indisturbata e interrotta solo da qualche vialetto di terra battuta, creato dai piedi dell'uomo. Un gruppo di anziani sono nascosti in uno spiazzo, coperti da alberi, sembra loro strano incontrare due Occidentali perché ci continuano a salutare, guardandoci e ridendo tra loro.
Qualcuno fa il bagno nell'acqua ferma dello Yangtze, avvolto nella nebbia a con navi da carico, enormi chiatte e navi passeggeri che passano a poche centinaia di metri di distanza, la sponda del distretto di Wuchang, sulla riva orientale del fiume, appena si scorge attraverso il muro di umidità.
C'è qualche edificio dell'epoca coloniale, pochi per la verità, mischiati a grattacieli di uffici, banche e a un paio di strutture gialle, squadrate e marziali, tipicamente Comuniste, come il Palazzo del Governo Municipale di Wuhan, circa a metà Bund, il Monumento al Controllo delle Piene dello Yangtze, una stele con una stella rossa in cima e il faccione di Mao che guarda lo Yangtze. C'è un altissimo edificio con una sfera dorata in cima, sproporzionata rispetto allo slancio del grattacielo che sembra in equilibrio sulla punta. La maggior parte degli edifici costruiti dagli stranieri, Britannici soprattutto, sono diventati sedi di banche.

Arrivati alla vecchia Dogana, un edificio rinascimentale con colonne greche, la prosecuzione naturale diventa Jianghan Lu, una strada pedonale stracolma di negozi di abbigliamento sportivo, con marche note come Nike, Adidas, Converse, Kappa, a fianco di marchi sconosciuti, alcuni marchi alla moda Cinese, altri pure copie di quelli Occidentali, uno recita “Anything is possible” facendo il verso al motto della Adidas “Impossible is Nothing”; un altra insegna riporta un coccodrillo verde, tipicamente Lacoste con il nome “Clio Coddle”. La strada è un susseguirsi di qualche edificio coloniale, alternato a grattacieli residenziali con le immancabili finestre blu e i vestiti appesi.



Alle spalle della zona del Bund sta nascendo una città nuova, tutta grattacieli, sul modello di Kunming, Chengdu, Chogqing, insomma il solito stampo di città contemporanea cinese, senza alcun tratto caratteristico se non la ricerca dell'edificio più alto, più slanciato, più “Occidentale”. C'è la solita copia dell'Empire State Building che, come il suo gemello di Chongqing ha il solo effetto di essere tozzo, quasi monco di una parte.

L'esperienza con i tassisti di Wuhan mi fa ricredere della fiducia incondizionata che ho riposto in questa categoria, almeno qui in Cina, sempre precisi e onesti. Il tassista che ci deve portare agli uffici della China Southern, nel centro di Hankou, prima cerca di portarci direttamente in aereoporto, disegnando un aereo stilizzato su un pezzo di carta, dopodiché fa un lunghissimo giro tutto intorno al Ramada Hotel, alla cui base ci sono gli uffici delle compagnie aeree, distante si e no un paio di chilometri dal nostro hotel ma che diventano un quarto d'ora buoni passando tutto intorno per superstrade e cavalcavia. Arrivati agli uffici, un tassista ci mostra una cifra in un mare di ideogrammi cinesi, “60” facendoci capire che è il prezzo del biglietto della navetta per l'aereoporto di Wuhan, e proponendoci di portarci lui in taxi per 80 yuan, scrivendo i numeri sullo schermo del cellulare. La cosa mi puzza e, infatti, prendendo i biglietti al bancone costano 15 yuan.
“No good, no good!” urlo al tassista, puntandolo al cuore con il dito indice, con Ale che mi dice di lasciar perdere. Viene fuori tutta la mia ideosincrasia e odio viscerale per questa categoria maledetta. Fa prima un sorriso, poi sentendosi gli occhi puntati addosso, esce dalla biglietteria.

L'aereoporto di Wuhan sembra quello della Malpensa, il secondo aereoporto d'Italia e qui uno dei tanti delle capitali di provincia dello sterminato Paese. Una struttura su due piani cui si accede per un'autostrada dedicata, con tanto di cavalcavia. Una struttura tubulare, solo vetro e tubi enormi di acciaio, bianca, che sembra vuota tanto è grande e dispersiva. Dei semicerchi gialli e rossi appesi al tetto, altissimo, sono l'unica nota di colore. E' persino silenzioso e ordinato, così diverso dall'aereoporto di Kunming.
Boutique Samsonite, marche italiane di abiti sconosciute, con prezzi europei (un lucchetto per il mio zaino a 198 yuan rimane a prendere polvere sul suo scaffale) e il vizio tutto Cinese di accettare solo carte di credito cinesi,
“No VISA, bank!” indicando un punto sconosciuto in aereoporto dove ti costringono a prelevare per pagare tu le commissioni.

Volo comodo, un'ora scarsa per arrivare a Nanjing, nessuna luce in vista finché non sei a pochi metri dalla pista di atterraggio in quanto l'aereoporto è a 30-40 chilometri di distanza dalla città, in mezzo alle risaie (ricordo ancora i folli atterraggi birmani a bordo di impeccabili ATR 42, durante i quali l'atterraggio non era preannunciato da luci delle strade, delle case o altro ma semplicemente dal sobbalzo dell'aereo sulla pista di atterraggio).
Un'altra ora di autobus (15 yuan) per arrivare in centro a Nanjing, grande, sicuramente la città più estesa toccata sinora dal viaggio, come testimoniano anche i costi dei taxi che difficilmente scendono sotto i 20 yuan, incolonnati come saremo sempre nel traffico o lungo strade enormi che sembrano non avere fine.

Arriviamo all'hotel, Future Inn (anche se la scritta Future Inn non la troviamo da nessuna parte, sostituita da un più recente Mingri Hotel), 308 yuan, in pieno centro accanto a Xinjiekou, centro geografico e commerciale di Nanjing. E' tardi, qui fa buio ancora più presto, alle 8 di sera è già notte e mi mancano le sere lunghe di Zhongdian, dove alle 22 avevi ancora un po' di luce, con tutti i ristorantini e negozi aperti,

Giusto il tempo di lasciare i bagagli e via a cercare un ristorante, difficile che ci diano da mangiare alle dieci di sera, anche se l'impronta turistica Occidentale si nota nel prolungamento degli orari di apertura dei negozi. Troviamo un Café- Steak-Chinese, un locale con improbabili accostamenti di quadri, da New York primi Novecento a Biancaneve, sedie di metallo lavorato e una statua di un anziano con grammofono in vetrina. Il cibo è delizioso, tra gelati, caffè mischiati a qualunque cibo commestibile (dai prezzi esoso, non meno di 30 yuan), si trovano anche noodle e zuppe.

lunedì 11 agosto 2008

11.8.08 h 21.50
Wuhan.



Ultimo giornata di discesa del fiume con tappa a Sandouping, il sito dove è stata costruita la mastodontica Diga sul Fiume Yangtze. Dire mastodontica è poco, immaginate sbarrare a metà corso il terzo fiume più lungo del mondo, con una portata tale per cui riesce a percorrere ancora oltre duemila chilometri con un dislivello di soli quattrocento metri.

Che la riserva d'acqua creata dalla diga creerà problemi ce ne accorgiamo subito la mattina quando, affacciati dal balcone della cabina, a mala pena riusciamo a vedere l'altra parte della riva a causa della fitta nebbia che si vede salire dall'acqua.

Trovare la diga è semplicissimo, è talmente grande che di giorno sfila come un serpente grigio davanti agli occhi, basta guardare il senso della corrente che da qualche parte il tuo sguardo la trova, di notte è illuminata come un albero di Natale coricato, tutta gialla con quattro puntini rossi che sono le ciclopiche gru ancora installate per terminare gli ultimi lavori. Altrettanto non si può dire per vederla da vicino. Prima di tutto bisogna risalire a piedi quasi 250 scalini che dal livello del fiume portano alla strada, le funicolari meccanizzate sono “ferme per revisione a causa dei Giochi Olimpici”. Prima di tutto mi devono spiegare il nesso logico tra revisione e Giochi Olimpici, che tra le altre cose si tengono a un paio di ore di aereo da qui; secondo mi sembra che i Giochi Olimpici stiano diventando un alibi per qualunque decisione passi per la testa dei governanti di Pechino: la repressione in Tibet e in Xingjiang, la chiusura delle frontiere con lo stesso Tibet, il fatto che non possiamo attraversare la Diga fino a Yichang ma ci fermiamo prima, e tanti altri piccoli episodi.

In cima ai 250 scalini ci aspettano gli autobus che, dopo mezz'ora a passo sostenuto, girando attorno alla diga e passando sul “Golden Gate” Cinese (un ponte replica del be più famoso che domina la Baia di San Francisco, solo bianco e arancione), arriviamo all'ingresso del Three Gorges Project, dove ci aspetta un check- in e controlli come in aereoporto: bagagli passati ai raggi X (poveri i miei rullini delle macchine fotografiche, sono stati cotti dai continui passaggi in forni cinesi “film safe”, alla stazione degli autobus, dei treni, all'imbarco dei traghetti, ovunque i Cinesi stanno vivendo la situazione attuale peggio di come mi è sembrato a New York, dove forse avrebbero qualche motivo in più), controlli personali, autobus setacciati con dispositivi che cercano esplosivo. Risaliamo sull'autobus e altri cinque minuti portano al punto più vicino alla diga, un centinaio di metri, in quanto è assolutamente vietato avvicinarsi oltre per non dire attraversarla a piedi, sia perché la sommità non è terminata, sia perché la Diga è diventata il primo obiettivo sensibile in caso di attacco terroristico o di guerra e, come tale, è protetto più di un'installazione militare, con tanto di missili antiaerei. La diga è enorme e fa impressione, soprattutto, il dislivello delle acque che si può apprezzare da questa prospettiva, almeno centocinquanta metri di differenza tra le acque a monte e a valle, una bomba a orologeria che si spera non debba mai esplodere, altrimenti altro che Diga del Vajont, quella in confronto sembrerà una doccia (con tutto il rispetto per le migliaia di morti), qui si parla di inondare e devastare un'area che arriva fino a Shanghai, abitata da qualche centinaia di milioni di persone.
Al centro della diga decine di getti di acqua marrone, lunghi dieci, venti, cinquanta metri, alti altrettanto, di una forza impressionante, sono sparati dalla sola pressione della massa d'acqua a monte nel prosieguo del corso dello Yangtze, con un boato che ricorda quello della Gola del Balzo della Tigre.

Si sale poi sul punto più alto della zona da cui si ha una visione d'insieme del Progetto, dalla costruzione degli argini e la sistemazione delle banchine attorno al reservoir, alla diga e al mastodontico sistema di chiuse a 5 livelli successivi che permettono a navi fino a diecimila tonnellate di passare in poco più di un'ora. Piano piano si capisce l'orgoglio dei Cinesi nella costruzione della diga, un'opera... da Cinesi, al pari della Grande Muraglia o del Grande Canale tra lo Yangtze e il Fiume Giallo.

Ritorniamo alla barca alle 11, giusto in tempo per il pranzo prima di disimbarcare, rifare i 250 scalini e ritornare sul pulmann dove, con armi e bagagli, ci trasferiranno a Yichang.
Salutiamo i compagni di tavolo, tutti Francesi di mezz'età tra cui, scopriremo c'era seduto un campione di tennis di almeno quarant'anni fa, tale Pierre Darmon con la moglie, vittoriosa al Rolando Garros in epoca imprecisata (andro su Wikipedia per informarmi), insomma eravamo al tavolo con dei VIP e non ce ne siamo accorti.

Il trasferimento a Yichang dura un'ora, una bella autostrada costruita nei primi anni '90 per creare una via di trasporto per i camion che avrebbero costruito la Diga, dove poi prendiamo un altro autobus che ci porterà a Wuhan, la “fornace della Cina” insieme a Chongqing e Nanjing, “le estati sono talmente roventi che si scioglie l'asfalto per strada”. Alla stazione degli autobus abbiamo come il sentore che questa volta ci hanno fregato, nella piazzola antistante la biglietteria veniamo avvicinati da una donna che ci presenta 2 biglietti per Wuhan (anche sui tagliandini zeppi di ideogrammi avrebbe potuto esserci scritto anche Napoli o il conto del ristorante) per il costo di 100 yuan a biglietto, leggermente più caro dei 70-90 yuan spesi sin'ora per viaggio di lughezza simile, come se avesse arrotondato in alto vedendoci in faccia. La guida (maledetta Rough Gide) riporta che partono autobus per Wuhan ogni cinque minuti, noi dobbiamo attendere dalle 13.45 alle 15.15 in attesa che il pulmann, con sedili in pelle e cestini pieni di acqua disseminati ovunque, si riempia. Un viaggio da incubo, sicuramente il peggiore da quando ci muoviamo via terra, infinito, l'aria condizionata accesa e spenta a ripetizione per un tentativo di risparmiare sul carburante (fa niente se nell'ora e mezza di attesa a Yichang il pulmann sia rimasto acceso costantemente con l'aria condizionata), freddo fastidioso o caldo appiccicoso alternati per quattro ore; l'autista che fuma come un Cinese e spegne le sigarette in un secchio di acqua pieno di pattumiera e moccini; andatura oscillante tra i novanta chilometri orari e i settanta, quando dopo tirate di qualche minuto veniva inserita la folle, sempre in un'ottica di risparmio. Mai una sosta in un distributore SINOPEC è stata tanto attesa, anche pisciare in un cesso saturo di vapori di ammoniaca, acido urico e fumo di sigaretta.
Sullo schermo sono proiettati i rapida successione una commedia con i Giapponesi nella parte degli invasori spietati e maldestri, che vengono sconfitti dall'astuzia di vecchi e bambini, e un dramma in cui sempre i Giapponesi hanno un ruolo secondario ma, naturalmente, negativo. Per il resto del viaggio un alternarsi di canzoni melodiche alla Al Bano e techno inizi anni novanta, sparate a tutto volume.

Il pulmann ci lascia praticamente alla periferia di Wuhan, appena fuori dall'autostrada, quando l'autista urla qualcosa verso i passeggeri e li obbliga a scendere. Una buona mezz'ora di taxi (mai spesi 26 yuan in taxi) ci porta nel distretto di Hankou, uno dei tre che formano Wuhan, la zona vecchia, delle Concessioni Internazionali, al pari di Shanghai tanto che ha il proprio “Bund”, o lungofiume.

Wuhan, acronimo che riunisce nel proprio nome i distretti più importanti, Wuchang, Hankou e Hanyang, formati dai due fiumi Yangtze e Han, è una città strana, molto estesa, ogni distretto ha un proprio centro, tutto grattacieli ni nuova costruzione e shopping mall sfavillanti di luci. C'è subito una grandissima differenza tra il distretto di Hanyang, dove ci lascia l'autobus, e quello di Hankou, dove c'è il nostro hotel: il distretto di Hanyang presenta strade larghe, piene di negozi nuovi e hotel- grattacielo, strade sopraelevate e architettura contemporanea molto pratica, senza guardare troppo all'estetica ma alla funzinalità; il distretto di Hankou, un sacco di grattacieli in costruzione, scheletri neri e poco illuminati nella notte, è il solito dedalo di viuzze sporche, strette e buie tipico delle città Cinesi, con qualche innesto di modernità qua e là con un grande magazzino o un hotel acciaio e cristallo.

L'hotel Jianghan è un quatto stelle che, quasi come quello di Leshan, ha visto tempi migliori anche se la hall è veramente lussuosa: peccato per i corridoi con la moquette consunta e sporca e le camere vecchie ma pulite, moquette sempre a parte. Comunque 318 yuan abbastanza ben spesi.
Sono le 20.15, dove si mangia? E' già buio, i 2 fusi orari di differenza che con indifferenza a Pechino rifiutano di concedere riportano il sorgere e calare del sole a ritmi più normali per la latitudine cui siamo. Infatti era alquanto strano vedere ancora il sole alle 9 di sera, seppure basso all'orizzonte, e l'alba alle sette e mezza. Purtroppo il Beijing Time vige in tutta la Cina, sia che ci si trovi a Shanghai sia a Urumqi, a 5 ore di aereo di distanza a Ovest, quando dovrebbero esserci almento tre se non quattro fusi di differenza.

Troviamo, quasi per caso, a dieci metri dall'ingresso dell'hotel, dopo aver fatto il giro dell'isolato, un ristorante con una tavolata di colleghi che banchetta allegramente, i tavoli stretti e coperti da una tovaglia di simil- cellophane, sottile e quasi aderente. La pulizia dei tavoli è garantita, i piatti e bacchette sono addirittura sigillate nella plastica, il pavimento è coperto di mozziconi e avanzi di cibo, all'ingresso due catini dei panni contengono delle bestie vive tutte attorcigliate nell'acqua, a metà tra anguille e serpenti.
Scettici ordiniamo da menù in cinese ma con delle fotografie realistiche, un piatto di tofu impanato e fritto con sesamo e peperoncino e degli spiedini di carne impregnata e coperta di peperoncino. Una delizia entrambi i piatti, anche se la bocca è in fiamme.

La città alle 20 è già spenta, sarà il buio che qui arriva presto, sarà che il viaggio è stato massacrante, ma si respira un'aria stanca, sonnolenta, tutti i negozi sono chiusi, tranne qualche piccolo buco che vende vestiti, le uniche luci in una schiera di edifici bui; i ristoranti stanno pulendo e tirando su le sedie, del resto qui tutto è ancora regolato dalla luce del sole, nonostante l'elettricità e gli orologi.

A letto presto, tra una gara di pallavolo alle Olimpiadi e una pagina di un bel libro su Manhattan


10.8.08 h 17.50
Xiling Gorge



Arriviamo alla prima delle Tre Gole che il sole sta sorgendo, sono appena le 6 e mezza. La Gola Qutang è la più corta e la più stretta, solo 150 metri ora che il livello del fiume si è alzato di 145, prima doveva essere una vera meraviglia.
Tutta la zona doveva essere una meraviglia, con gole rassomiglianti a quella del Balzo della Tigre, forse ancora più bella in base a quanto si può vedere nelle fotografie d'epoca, gorghi di acqua marrone d'estate e verde limpida d'inverno, in fondo a precipizi coperti di alberi, qualche isola di sabbia ai bordi.

L'escursione prevista è nelle Piccole Gole, che sono scavate dal fiume Daning, un affluente dello Yangtze sulla cui confluenza sorge la città di Wushan. Cambiamo imbarcazione, saliamo su una barca più piccola che più agilmente riesce a risalire la corrente del fiume Daning, incredibilmente verde già a poche centinaia di metri dallo Yangtze. Anche queste gole (la Gola del Ponte del Dragone, la Gola Vaporosa e la Gola Verde Smeraldo) sono state incredibilmente sovvertite nella loro bellezza originaria pur mantenendo un'attrattiva sicuramente maggiore rispetto alle ben più famose Tre Gole. Un ponte all'ingresso della Gola del Ponte del Dragone, di un arancione intenso, sta finendo di essere riassemblato qualche chilometro più a monte, qui in questa zona di “ricollocamento” non si è buttato via nulla, i ponti smontati e ricostruiti dove serviva (incuranti delle necessità degli abitanti della zona non ancora ricollocati o che potevano rimanere), le case distrutte non con la dinamite o bulldozer ma a mano dagli stessi occupanti, pietra dopo pietra per poi ricostruirle in zone più sicure. Queste gole, sebbene profondamente mutate, riescono ancora a trasmettere un fascino e un timore nei confronti della Natura, cosa che, almeno personalmente, non mi è stata trasmessa dalle Tre Gole, al pari delle Gole dell'Irawaddy nello Stato Kachin (Myanmar), a nord di Shigu tra Bhamo e Mandalay, o la più recente Gola del Balzo dell Tigre. Sulle pareti della Gola Vaporosa, quella intermedia, si possono osservare delle fenditure orizzontali nelle pareti verticali che contengono delle casse da morto: sono vecchie di oltre duemila anni e sono un metodo di sepoltura tipica dell'etnia Ba (si possono osservare anche nella zona di Leshan e Yibin), per cui più in alto si metteva la tomba e maggiore era il grado sociale del defunto. Un vero e proprio mistero il modo in cui siano state costruite, praticamente a strapiombo centinaia di metri sopra il corso del fiume, su una parete liscia quasi come il marmo.

Ma sono le Mini Gole (Lesser Lesser Gorge), formate dall'affluente del Daning, il fiume Ma Du, cui si accede solo dopo aver lasciato anche questa imbarcazione ed esser saliti su dei sampan a motore in piccoli gruppi, che fanno entrare in un mondo incantato, pareti strettissime, foresta quasi a picco nel fiume, acque cristalline (quasi) e un silenzio interrotto solamente dal verso di qualche animale e dal flauto di un eremita in una tenda in cima alla montagna, praticamente una persona messa lì apposta per i turisti che, magicamente, inizia a suonare il suo strumento quando vede arrivare il sampan. Anche in queste mini gole il paesaggio originario era completamente diverso, il fiume un corso strettissimo, di qualche metro di larghezza, difficile da transitare tant'è che le imbarcazioni venivano fatte passare attraverso le rapide assicurate a delle corde trainate da gruppi di uomini nudi, che camminavano sulle rocce viscide. Nelle Piccole Gole, addirittura, si formavano nelle stagioni di secca, delle spiagge di sassi e sabbia con banchetti di cibo e articoli di ogni genere, per turisti e non, offrendo un piacevole diversivo e momenti di relax a seguito della difficile traversata.
Tra andata, da Wushan alle Mini Gole, e ritorno passano quasi quattro ore, sicuramente la parte più bella di questi due giorni sullo Yangtze, ormai le Tre Gole sono un lontano ricordo di ciò che erano e, a parte le montagne maestose, che un tempo erano a picco perché le pareti partivano verticali dalla riva del fiume mentre ora salgono angolate dallo Yangtze alla cima, perdendo maestosità, sembra di scorrere su un fiume placido, sporco che attraversa una regione diversa dalle altre.

Riprendiamo la crociera passando nella seconda gola a valle di Wushan, la Gola Wu, un tempo famosa per una montagna maestosa che la controllava, il Picco della Dea, ora il picco si è drasticamente avvicinato annullando l'effetto di maestosità che avrebbe dovuto trasmettere.

L'ultima gola, la più lunga (oltre sessanta chilometri) e la più profonda, è quella meno coinvolgente, vuoi perché qui siamo a ridosso della Diga e quindi il livello del fiume è salito più che nelle altre zone, vuoi perché le montagne salgono dolcemente e i picchi sono distanti tra loro, dando l'impressione di essere più su un lago stretto e allungato che nel fiume più importante e più pericoloso della Cina.

Nel pomeriggio c'è una spiegazione della Diga delle Tre Gole, organizzata dallo staff della nave, interessantissima perché mette in chiaro i molti dubbi che ancora avevo sull'importanza della costruzione e perché, stranamente, il linguaggio usato dal direttore della crociera, un ragazzo cinese di una trentina d'anni è stranamente e sorprendentemente schietto, parlando di vantaggi, svantaggi, corruzione e altri argomenti “spinosi” (non me lo sarei aspettato, tenendo conto che la CNN si vede solo nelle cabine dei passeggeri non Cinesi, a basso volume e non incrementabile).

Intanto attracchiamo nel “reservoir” creato dalla diga, un lago di un paio di chilometri di ampiezza che preme con una forza incredibile sulle pareti della diga. Il fiume, già di per sé non attraente per via delle acque color caffelatte, è una schifezza, una patina biancastra lo ricopre e vi galleggiano oggetti e resti di cibo di tutti i tipi. Proprio questi sono i primi problemi della diga.

09.8.08 h 11.30
Dongfu

Attracchiamo nella notte a Feng Du, centosettantasei chilometri da Chongqing e poco meno di 5 ore di lenta discesa dello Yangtze, con la barca che con il suo rollio concilia il sonno, che per la prima volta arriva non leggendo le pagine di un libro ma guardando la cerimonia di inaugurazione dei Giochi Olimpici: facciamo appena in tempo a veder sfilare l'Italia che cadiamo in un sonno profondo, interrotto solamente da una lunga sirena nel cuore della notte.

Colazione Western- Chinese style e poi i vari gruppi si dividono per le escursioni guidate, chi affronterà circa 900 scalini per vedere la “Città dei Fantasmi” in cima a una collina (con i templi sul Monte Mishan pieni di illustrazioni sui vari strumenti di punizione dell'Inferno Cinese e demoni vari) chi, come noi, un viaggio in minibus per il più interessante e in linea alla mentalità cinese di esodo forzato, uno dei tanti “villaggi ricollocati”.
Tredici città, centoquaranta paesi e 1352 villaggi saranno sommersi entro ottobre e definitivamente nel 2009 con il completamento della Diga delle Tre Gole, oltre a 657 industrie e 570.000 acri di terreno agricolo con un esodo forzato di un milione e mezzo di persone. L' “Opera più maestosa mai costruita dall'Uomo”, naturalmente dopo la Grande Muraglia, iniziata nel 1996 e con un costo che supererà i cento miliardi di dollari, avrà numeri impressionanti, oltre due chilometri di lunghezza e una base di centotrenta metri e innalzerà il livello del fiume di 175 metri, fino a Chongqing, cioè seicento chilometri a monte. Numeri impressionanti che solo questa gente può partorire e mettere in pratica, incuranti della flora, della fauna e delle persone che per millenni ci hanno abitato. Ma la crescita economica della Cina ha un prezzo e lo stradicamento di un milione e mezzo di persone vale la pena pagarlo, almeno per il Governo Cinese. Ufficialmente la costruzione della diga servirà per il controllo delle piene del fiume, per l'irrigazione e per migliorare la navigazione, in realtà questo gigante che consuma petrolio per far funzionare le proprie industrie a ritmi sempre maggiori, cerca di sfruttare ogni caratteristica del proprio territorio pur di creare elettricità, anche a costo di cancellare per sempre un opera d'arte della Natura come le Tre Gole.

Il breve tragitto verso la città vecchia di Feng Du passa attraverso una zona piena di ruspe e camion carichi di detriti che stanno sbancando la riva del fiume, dove prima c'era un villaggio di contadini, con una sfera posta emblematicamente in mezzo a una spianata esattamente nello stesso punto in cui c'era il centro del villaggio. I fianchi della collina sono tutti in costruzione, immense opere di consolidamento degli argini di quello che sarà il nuovo Yangtze.
La guida ci spiega, non so se sinceramente o se questo è quello che le hanno insegnato o se si è autoconvinta, che la vita è migliorata, hanno case più grandi, vie pulite, non ci sono più gli odori nauseanti tipici dei vecchi villaggi claustrofobici tipicamente asiatici. Prima viveva con tre generazioni della sua famiglia in una casa di venti metri quadrati, ora vive in centoquarante metri quadrati, pagati solo 5000 dollari. Prima voleva andare a vivere in una città, Chongqing, ora le piace stare nella città nuova sorta quindici anni fa, sulla riva sud del fiume, moderna con un skyline di grattacieli che contrasta con il villaggio ricollocato al di là del fiume, giovane ma già affollata di case e grattacieli a rubarsi il poco spazio che c'è tra la montagna e il fiume.
Il villaggio ricollocato è un paese fantasma, una strada lunga e diritta, polverosa, vuota, coperta ai lati da mais, riso e altri cereali a essiccare, qualche pollo che si nutre da queste cataste, per il resto non un anima viva per le strade. Tutti chiusi nei loro stanzoni bordo strada in attesa di avviare un'attività, giocano a carte, a scacchi o a mah-jong. Altre attività già iniziate sono in attesa di acquirenti che forse non arriveranno mai. Un senso di desolazione provato prima d'ora solo in Corea del Nord, fuori Pyongyang. Come costruite sono le visite a due abitazioni di contadini ricollocati, le “nuove case” che agli occhi del governo Cinese dovrebbero essere migliori ma che non reggono il confronto con la peggiore guesthouse di Bangkok, a 1 dollaro a notte, posti dove nemmeno una notte si riuscirebbe a stare. Costruite da appena 8 anni ma già con le crepe nei pavimenti, nei muri, con le turche al posto dei gabinetti (almeno hanno il bagno in casa qualcuno potrà dire), il tetto utilizzato come riserva idrica pieno di zanzare e insetti che svolazzano tra panni stesi. La casa “migliore” è una di fronte la scuola con una bottega di tutto e niente, proprio di fronte alla scuola e per questo la più bella e ampia. Tre fotografie sono esposte nella sala principale, in mezzo alle quattro camere da letto con letti vecchi e sporchi coperti da materassi di bambù, fotografie che ritraggono un giovane ex presidente in visita al villaggio ricollocato e che, paternamente, osserva le “meraviglie” di queste nuove case. Domande scontate, quasi imbarazzate sul nulla, a che ora apre e chiude il negozio, in quanti vivono in questa casa, quando la domanda più spontanea che mi viene in mente ma che non faccio per dovere di ospitalità è
“Siete felici adesso?”

Ci racconta che il governo centrale ha concesso ad alcuni di questi contadini “ricollocati” la possibilità di avere un secondo figlio, spiegandoci come funziona la politica del “figlio unico”. Solo le etnie non- Han hanno la possibilità di avere più di un figlio mentre per gli Han dopo il primo figlio sei soggetto a multe, dall'equivalente di 1500 dollari per un contadino in una zona rurale, fino ai centomila (CENTOMILA) dollari di multa se hai la sfortuna o non hai i mezzi di comprarti un preservativo a Shanghai, dove non vivono solo miliardari. Inoltre, se sei un dipendente pubblico o lavori per un'industria a partecipazione statale, perdi anche il posto di lavoro. In alcune zone rurali le multe vengono evitate non registrando il nuovo nato: ciò, tuttavia, non fa altro che aumentare il livello di degrado culturale perché la tessera di registrazione dà la possibilità, tra le altre cose, di accedere all'istruzione gratis.

Questo è solo ciò che ci fanno vedere da vicino, la realtà è ben diversa. Lungo lo Yangtze si vedono edifici abbandonati, villaggi per non dire piccoli paesi con edifici alti, non le case vecchie, luride e decrepite dei contadini, e senza le opere di consolidamento delle rive del fiume che avevamo visto. Qui, quando si innalzerà il livello del fiume, chi rimarrà lo farà a proprio rischio e pericolo, lasciando una specie di Atlantide senza magnificenza o storia da raccontare.

La traversata scorre lenta, oziosa e placida come cercavamo, tra Olimpiadi alla televisione, un libro da leggere e un sonnellino osservando la riva dello Yangtze che scorre. Passiamo una serie di città, alcune sul lungo fiume, altre in collina ma, occhio e croce, non a livello di sicurezza in previsione della piena che ci sarà dopo il completamento della diga. Enormi scheletri di grattacieli, almeno una decina per ogni città che passiamo, giaciono incompiuti, neri come tizzoni di carbone. Una moltitudine di ponti unisce le due rive, altissimi e bianchissimi, sembra che dacché ce n'era uno solo quasi in prossimità della foce, ora i Cinesi abbiano preso gusto a costruirne i rapida successione, alcuni a poche centinaia di metri di distanza l'uno dall'altro.

Si è fatta sera, un cielo limpido con poche stelle e qualche luce che arriva dalle montagne, un sentiero di luci rosse attraverso cui la barca continua la navigazione, l'unica in questo tratto di fiume perché le solite imbarcazioni, piccole barche a motore e le enormi chiatte che trasportano carbone (si, ancora il carbone usato in Occidente fino a cinquant'anni fa) e altre materie prime.

Un imbarazzante spettacolo nella sala principale della nave, dove gli stessi ragazzi e ragazze che servono ai tavoli cambiano in successione dei costumi che rappresentano il modo di vestire durante le varie dinastie che hanno regnato sulla Cina per migliaia di anni.

08.8.08 h 8.08pm
Chongqing.

Per poco non perdiamo l'autobus per Chongqing a causa di una carta di credito che le impiegate dell'hotel non erano in grado di far funzioanare. Fortunatamente l'hotel è vicino alla stazione degli autobus, fortunatamente c'è qualcuno che parla un approssimativo inglese, meno male tutto ma quando alle 8.30 stanno ancora armeggiando con la mia carta di credito, senza apparente via di soluzione, mi saltano i nervi e inizio a imprecare sventolando il biglietto del pulmann, che partirà dopo soli venti minuti, sotto il naso di una ragazza tutta sudata per l'agitazione. Paghiamo in contanti e senza nemmeno salutare (con un po' di rimorso appena varcata la soglia) saliamo sul primo taxi di passaggio.
Con il pulmann per Chongqing abbiamo toccato il fondo dei peggiori e più pericolosi mezzi di trasporto su gomma e su terra cinesi, un vecchio autobus con i sedili in pelle consunti, sporco da far schifo, con l'acqua che entra copiosa dalle portiere, sotto un nubifragio incredibile. La strada è viscida come un parquet appena lucidato ma nonostante ciò l'autista in guanti bianchi (tutti qui usano i guanti bianchi per guidare, anche i minivan) sfreccia su questi 350 chilometri di autostrada facendo zig-zag tra automobili, camion e altri autobus. Un'autostrada pericolosissima, tutta curve e buche, ogni tanto segnalate con improvvisi birilli arancioni e bianchi in mezzo alla corsia, spesso lasciate lì coperte di acqua, e quasi impraticabile per via della pioggia, Un incidente ogni tanto di qualcuno che ha sbandato, uno rischiato da noi quando una macchina si è appena schiantata contro il guard- rail centrale e l'autista, per evitarla procedendo a tutta velocità, inchioda facendo intraversare il pulmann. Per non so quale grazia del signore, l'autista decide di fare l'unica cosa possibile per evitare di fare strike, accelerare per recuperare il mezzo e superare un camion che intanto era accanto a noi. Intanto il botto si avvicina ma proprio all'ultimo momento si crea un varco tra la macchina distrutta a sinistra e il camion a destra: ci è andata bene!

Arriviamo a Chongqing dopo quasi quattro ore, strana città, nata come penisola alla confluenza dello Yangtze e del fiume Jialing, la municipalità più popolosa del mondo con oltre trentatre milioni di abitanti, tanto che dal 1997 non è più capitale di provincia ma Municipalità governata direttamente, al pari di Pechino, Shanghai e Tientsin.
A un primo colpo d'occhio, appena scesi dall'autobus in stazione, è di essere in una Montecarlo dopo una catastrofe, una sintesi di Blade Runner e la Manhattan di “1997: Fuga da New York”. Gente, gente e ancora gente, confusa e caotica, che va e che viene senza una ragione apparente, automobili, taxi e autobus che si mischiano non in un traffico ma in una “marmellata di traffico”, perché l'nico termine che può esprimere la sensazione è la traduzione letteraria del termine inglese per identificare un ingorgo. Tutte intorno le colline a strapiombo su Chongqing, con palazzoni alti e stretti, gli uni accanto agli altri che sembra di non poter passare tra essi, proprio come a Montecarlo senza la pulizia, l'ordine e la bellezza che trasmette osservare quelle colline senza più una macchia di verde. Solo un Montecarlo trascurata, sensazione ancora più marcata quando arriviamo in centro, un vero e proprio distretto finanziario al pari della City di Londra o del Financial District di Manhattan, con le sue stradine tortuose che si inerpicano su e giù, claustrofobiche per via dei palazzi residenziali che sorgono a ridosso del marciapiede, con i loro trenta o quaranta piani circondati dalle grate alle finestre, panni stesi e condizionatori che pisciano ruggine lungo il fianco della casa.
Financial District che sembra guardare alle città che ce l'hanno fatta prima: un grattacielo che ricorda l'Empire State Building, un'altro che sembra il Municipal and Government Building di Tokyo, solo meno arzigogolato e più lineare. La strada principale, isola pedonale con grandi alberi al centro che servono a dare un po' d'ombra in questa città infuocata e umida, è fiancheggiata dai grattacieli e presenta una torre dell'orologio al centro, marchiato Rolex come le tante boutique di orologi e gioielli della zona.
Ma basta entrare per una qualunque delle perpendicolari che sembra un altro modo, le solite bancarelle di cibo, edifici fatiscenti, proprio accanto a mostri ipercontemporanei e ipertecnologici. Una casa di tre piani, mattoni e pietre ormai quasi nere per l'età e la sporcizia, senza finestre e i soliti ballatoi bui e pieni di panni stesi, sorge proprio ai bordi di un enorme scavo dove sorgerà l'edificio più alto di Chongqing, simile alla torre più alta del mondo attualmente, quella di Taipei, che cambierà radicalmente lo skyline di Chongqing, rendendola più simile a Shanghai che non a Chengdu o Beijing.



Facciamo scorta per i tre giorni di crociera in un Carrefour, il primo supermercato occidentale che incontriamo, curioso per avere un'idea dei prezzi e fare un raffronto. 1 chilo di riso costa, della qualità migliore, 50 centesimi di euro (da qui le sommosse nelle campagne delle ultime settimane contro il rincaro del genere alimentare di prima necessità), una ricarica di Raid contro le zanzare 90 centesimi di euro contro gli oltre 4 euro dell'Italia (bastardi!), i chilo di pomodori 80 centesimi, una birra in lattina dai 10 ai 30 centesimi di euro. Facciamo una spesa di 3 sacchetti colmi con birra, acqua, dolci e salato per 13 euro.

Sotto i cavalcavia che circondano quasi ad anello la penisola si è creata una città parallela di derelitti e senzatetto. Attirati senza dubbio dai grattacieli di Chongqing e dalla parvenza di lusso, non hanno avuto la possibilità, o le capacità, di crearsi un posto nella società cinese che negli ultimi venti anni, dalla rivoluzione economico- culturale e sociale di Deng Xiao Ping, ha creato milioni di nuovi ricchi (ricchi all'Occidentale) e dal nulla una classe media, prima inesistente, capace di andare in ferie, avere un cellulare, qualcuno, un'automobile.

Ci imbarchiamo sulla Victoria Empress dai moli Chaotanmien, all'apice della penisola a forma di virgola, formata dal fiume Yangtze che scorre a sud e dal fiume tributario, il fiume con le barche tutte uguali e tutte “Victoria”, giaciono in attesa trenta metri più sotto. Delle cabine metalliche che scorrono su binari lungo la parete del lungofiume portano alla barca. Sembra di entrare in un hotel, moquette ovunque, aria condizionata che dà soddisfazione e fa venir voglia di coprirti, personale che dal primo all'ultimo parla inglese, una quantità di Cinesi impiegati anche nelle mansioni più inutili: la banda che ti accoglie all'ingresso, una schiera di ragazzi e ragazze che formano due ali pronte a salutarti ogni passo che fai. Proviamo a chiedere l'upgrade per la suite, un miniappartamento di 40 metri quadrati con mega schermo LCD, Jacuzzi e balcone sulla prua della nave con una vista magnifica della navigazione.
“onethousandfivehundreds US Dollars”
e io che contrattavo a mille convinto che si riferisse a Chinese Yuan! Direi che 1000 euro per due giorni di navigazione mi paiono eccessivi, pur con tutti i comfort del caso, e ci accontentiamo della nostra minicabina con balcone giusto giusto con due sedie.

Cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Beijing 2008. Penso sia una delle pochissime volte che la guardo in diretta, quasi tutta, perché capito nello stesso fuso orario dei Giochi e non sono costretto a levatacce mattutine o a improbabili pomeriggi davanti alla televisione e perché ho a mia disposizione uno schermo in un posto che non mi permette altri svaghi.
Alcune considerazioni.
1.i bambini di tutte le etnie che portano la bandiera cinese: penso che se chiedessimo a ciascun abitante delle etnie rappresentate (soprattutto Tibetani e Uiguri) cosa ne pensano, otterremmo una risposta, quasi sottovoce, di forte critica. In un Paese dove gli Han, l'etnia predominante, quasi l'ottanta percento della popolazione, sta “cinesizzando” tutte le provincie, vuoi per trovare nuovi spazi alla sovraffollata costa orientale, vuoi per stemperare gli istinti indipendentisti imbastardendo la popolazione;
2.è contro lo spirito Olimpico, che tanti cessate il fuoco ha portato nell'antichità e tantissimi altri, forse troppi, ne ha richiesti dal 1896, anno della prima Olimpiade moderna, che la bandiera del Paese ospitante sia portata da 8 militari, vestiti di tutto punto che con un sincronizzatissimo passo dell'oca portano al pennone;
3.una serie di politici ingessati, con le facce quasi sempre impassibili, solo un Hu Jintao, premier cinese, spesso in piedi a salutare e con un sorriso sulle labbra. Per il resto mostri da preistoria che sfigurerebbero davanti alla faccia di cera di Mao, imbalsamato a pochi chilometri di distanza;
4.sfila il gruppo di Taiwan, l'odiata provincia ribelle, con un'ipocrita bandiera del Comitato Olimpico, non con i colori nazionali.

Siamo in attesa di staccarci dal molo di Chongqing per iniziare la discesa, si sta facendo notte e pian piano i mostri d'acciaio del lungofiume si accendono di luci colorando le sponde. C'è un silenzio irreale, interrotto solamente dalle voci dei marinai che vengono dalle chiatte che scivolano sullo Yangtze.

giovedì 7 agosto 2008

07.8.08 h 14.00
Yibin.

Tappa decisiva nello Yangtze River Tour 2008, siamo arrivati a Yibin, dove il fiume Yantze, finora detto fiume Jin Sha, si unisce al fiume Min dando vita allo Yangtze propriamente detto. Una città anonima, almeno agli occhi degli Occidentali o almeno per i miei (ne ho scoperto l'esistenza solo scorrendo con il dito il corso del fiume dalle sue sorgenti verso Shanghai), famosa per produrre due sostanze note per il loro potenziale distruttivo, l'uranio e il bai jiu, la seconda acquavite più bevuta dai Cinesi.

Dopo una colazione tutta cinese ma sicuramente migliore delle stanze dell'hotel di Leshan (un vero peccato per questo hotel lasciato andare in rovina che ricorderà in un suo passato più o meno remoto i fasti legati alla posizione centrale e a una splendida vista sui fiumi), a base di gnocchi al vapore ripieni di carne tritata e verdure speziate, alle 8.00 un taxi ci porta alla stazione nella periferia nord della città, ancora addormentata, poca gente in giro e le serrande dei negozi abbassate. Proprio una città da vivere Leshan, altro che Buddha Gigante e tour organizzati in giornata da Chengdu!

La strada che da Leshan arriva a Yibin è un massacro, 4 ore di autobus come previsto si riducono a sole 3 ore e quaranta minuti di inferno, autobus sporco, i sedili che rompono il fondoschiena e che obbligano a un Ballo di San Vito per diminuire il dolore, un autista costantemente attaccato al clacson che si sente persino dentro al mezzo. Un vecchio scatarra tra i sedili, accucciandosi nella speranza di non essere visto, una Cinese dorme appoggiata al sedile davanti, continue soste lungo la strada per caricare ora delle persone, ora un ingranaggio in ferro mezzo arrugginito delle dimensioni di una ruota. La strada pessima nel primo tratto, almeno finché non si arriva all'autostrada a due carreggiate separate, piena di buche, in un tratto sterrata con solerti gruppi di operai che, incuranti del traffico e schivati come birilli dagli automezzi in transito, cercano di coprirla con asfalto. Come mi è capitato di notare in tutta la Cina percorsa via terra, non c'è un solo chilometro di strada che non sia abitato, gli unici punti di nulla mi è capitato di trovarli nell'alto Yunnan, a Zhongdian, la prima periferia del Tibet. Mi colpisce soprattutto un villaggio che attraversiamo a tutta velocità, cosa che non mi impedisce di osservare le facce delle persone, tutte ma dico tutte con il sorriso sulle labbra o ridenti.
Tra un film “sparatutto” e una serie di canzoni Karaoke, arriviamo alla sosta, circa a metà strada, in un parcheggio di autobus con le immancabili bancarelle che vendono cibo, un cesso inavvicinabile e venditori ambulanti di pannocchie bollite e collane di fiori profumati che salgono sull'autobus per vendere la mercanzia.

Arriviamo a Yibin, nella stazione dei pulmann, subito a fare il biglietto per il giorno successivo per Chongqing, dove ci imbarcheremo per la traversata dello Yangtze in barca. Tra numeri scritti a penna sulla guida, il far leggere i caratteri cinesi relativi a “domani mattina” all'addetta alla biglietteria e con l'aiuto di un ragazzo giovane che spiccica due parole di approssimativo Inglese, riusciamo a ottenere due biglietti per Chongqing, 89 yuan a testa e quattro ore di viaggio che si spera siano migliori di quelle di oggi anche se, guardando la cartina dovrebbero essere tutta di “autostrada”.

Cerchiamo di prendere un taxi ma i primi due cui mostro il biglietto stampato il giorno prima a Leshan ma ottengo solo due scrollate di testa perché è troppo vicino e un cenno del dito indice della mano sinistra a indicare un punto fuori dalla stazione, vicino per loro ma lontano per noi che abbiamo i bagagli e non abbiamo la minima idea di dove dobbiamo andare. Sbatto la portiera di un taxi mandandolo affanculo ad alta voce, con molta maleducazione (ma quando ci vuole ci vuole), finché mi avvicino a un poliziotto e a gesti lo conduco vicino a un taxi, che ha appena scaricato due persone. Gli faccio capire di chiedere lui di farci portare in hotel e il tassista, con sguardo incazzato ci fa cenno di salire.
Effettivamente il tragitto è breve, a dir poco 3 minuti ma non vedo cosa ci sia di male a guadagnarsi 4 yuan (più uno di mancia per la cortesia, che fa tornare subito il sorriso al tassista) facendo il giro dell'isolato.

L'hotel Yin Long Rong Zhou di Yibin è posizionato proprio vicino alla stazione dei pulmann, appena fuori dallo svincolo dell'autostrada, quindi lontano dal centro come mi mostra la ragazza della reception su una cartina rigorosamente e solamente in Cinese (5 yuan). Il prezzo basso (250 yuan) per un 4 stelle, maestoso con una hall “cinese” marmo e corrimano luccicanti, un ragazzo in giro con una paletta elettrica a uccidere insetti immaginari, camere enormi e bagni ancora di più, pulite come da Kunming non mi capitava di trovarne, è dovuto proprio alla lontananza.

Il solito rito di una birra appena arrivato in un posto nuovo, nel bar dell'hotel, quasi a provarne l'ospitalità. Mi siedo al Cafè Milan, una serie di tavolini con vista sulla hall, tra parapetti in cristallo, tende di perline e luci a led degli alberi di Natale, una serie di tavoli più grandi all'interno rinchiusi da separé, per nascondere chissà quali incontri e tristemente bui e vuoti, grandi fotografie di caffè troppo lunghi nelle tazzine e chicchi di caffè troppo chiari. Senza chiedere nulla mi portano un Budweiser: grandiosi! Immagino il conto salato, le birre Occidentali costano sempre tanto, almeno il doppio di una Tsingtao, non meno di 20- 25 yuan, invece le ragazze che mi hanno portato la birra (qui sono due non una come sarebbe più normale) quasi con soggezione mi porgono un conto stratosferico di 12 yuan.

Constatiamo come in Cina, ovunque si vada, qualunque città o paesino, per insignificante che sia ha qualcosa che ti colpisce, ogni posto ha una storia da raccontare o un luogo caratteristico da ricordare. Yibin è così, insignificante secondo la guida, bellissima città di fiume, più di Leshan, circondata da colline e dai due fiumi principali, Min e Jin Sha con la loro continuazione Yangtze. E' proprio sulla collina a Ovest che decidiamo di salire.
“basta seguire la strada principale est-ovest”, come sembra dalla piantina in Cinese che ci hanno dato in hotel. Peccato che, arrivati al termine della strada si presenta davanti a noi si la collina, ma sbarrata da un un muro di case fatiscenti.
Due ragazzi che ci vedono alle prese con la piantina, nel tentativo di raccapezzarci, ci indicano la strada, dapprima noi diffidenti, “vorranno soldi?”, poi capiamo che in Cina l'ospitalità è sacra, soprattutto se sei un Occidentale in una città che vedrà 10 turisti stranieri in tutto l'anno.
Attraversiamo i binari di una ferrovia, saliamo due scalini e capiamo subito che, o troviamo il modo per salire con un taxi, un risciò o il trenino turistico su ruote che vediamo passare oppure la faccenda si fa lunga, oltre che faticosa dato che è uscito il sole.
Casualità troviamo lo stesso tassista che ci ha portato dall'hotel in centro, un ragazzo paffuto con gli occhiali che ci fa cenno di aspettare lì dove ha lasciato l'auto, accesa, perché va in casa a portare un malloppo di soldi guadagnati.
La solita guida spericolata e siamo a metà della collina, in un punto di ristoro da dove partono una serie di scalinate ripide.
La collina è tutta costellata di templi, piazzole di sosta con punti di ristoro o semplicemente di aggregazione, dove troviamo gente che gioca a Mah-jong e a carte. Templi attaccati gli uni agli altri, le pareti quasi si sfiorano e salendo le scalinate puoi saltare sul tetto di quello che hai appena lasciato. Arriviamo in cima alla collina, c'è una torre di osservazione da cui si ha una bella vista di Yibin e della confluenza dei due fiumi, anche se, scoprirò verso sera costeggiando il lungofiume, che il punto migliore per osservare la città e i fiumi è da una collina a nord, con una bella pagoda sulla sommità.
Scendiamo con una seggiovia lentissima e passiamo nella zona più derelitta e squallida di Yibin, un vero e proprio ghetto fatto di strade sterrate, case mezze distrutte ma abitate, buie, le sbarre alle finestre spesso mancanti, vetri rotti coperti dal cartone, scale luride che portano a ballatoi invasi da panni stesi. Cataste di carbone ovunque, segno che gas ed elettricità in questa zona non sono ancora arrivate. Eppure non una volta ci sentiamo in pericolo, magari fuori posto sì, noi sudati ma comunque con vestiti che fino a due ore prima erano puliti. E in contrasto, in lontananza i grattiacieli moderni con i ponti sospesi sui fiumi.
Pian piano, ci incamminiamo verso il lungofiume. Bellissime le stradine interne, vera Cina, caotiche, profumi di cibo che si mischiano al tanfo di urina e sporco, gente che ci guarda curiosa ma positiva. Bancarelle di cibo, come al solito, dove prendiamo i soliti panini bolliti ripieni, una bontà per soli 5 centesimi di euro. Ovunque ci sono zone ricreative con campi da pallacanestro e una miriade di tavolini all'ombra degli alberi dove persone di tutte le età giocano, quasi tutte scommettendo soldi.
Passiamo in una via dove ci sono i “veterinari”, con quattro cani crocifissi, legati proni a ogni singola zampa e con una flebo infilata. C'è un dentista con la poltrona in vetrina, aperta sulla strada, mi avvicino e faccio segno come un bambino al collega di una ventina d'anni che anche io sono come lui, sollevando risate dall'altra parte del vetro.
Il lungofiume è pieno di barconi che fanno servizio ristorante, tutti in stile cinese (che non so quale sia), in legno, minuziosamente arzigogolati, su più piani. Vediamo gente che lava gli scooter nell'acqua color caffelatte, che chiacchiera con i piedi a bagno, c'è chi fa il bagno e mi chiedo con che coraggio, se proprio non per il colore dell'acqua almeno per la forza della corrente.
Arriviamo alla confluenza dei due fiumi, scorrono velocemente e nel punto in cui si uniscono sembrano fermarsi. Sentiamo della musica che proviene dalla piazza soprastante, c'è una festa organizzata da due marche di birra locali che ha approntato dei banchetti come fosse una sagra delle nostre parti, solo che il cibo in vendita non sembra di nostro gradimento.

Si è fatto tardi, ormai. Entriamo in un ristorante cinese frequentato da giovani e qui inizia la tragicommedia. Menù in Inglese o con fotografie nemmeno a parlarne, la cameriere ci mette davanti il solito menù inserito in supporti di plastica, tutto in ideogrammi. Mi alzo e indico i piatti di quelli che stanno mangiando accanto a noi ma sembra non capire e mi parla in cinese. Arriva una collega con il taccuino, con il dito entro nel piatto dei commensali, tutti si mettono a ridere ma almeno sembra che lo show abbia avuto l'effetto desiderato dal momento che scrive qualcosa che sembra un'ordinazione. Attendiamo dieci minuti e vedo arrivare un'altra cameriera, diversa dalle due precedenti che ci dice
“Welcome”
e ci mette sotto il naso ancora lo stesso menù in Cinese.
Non ci resta che pagare la birra bevuta nell'attesa e uscire e cercare un fast-food, un odiato fast food. Invece capitiamo in un Dico's, una copia di KFC con pollo e hamburger di pollo, piccantissimi ma “meno” unti: gremito all'inverosimile nonostante si spenda il triplo di un normale pasto per strada, come hanno sempre fatto da secoli qui in Cina.