MOMA

MOMA

giovedì 7 agosto 2008

07.8.08 h 14.00
Yibin.

Tappa decisiva nello Yangtze River Tour 2008, siamo arrivati a Yibin, dove il fiume Yantze, finora detto fiume Jin Sha, si unisce al fiume Min dando vita allo Yangtze propriamente detto. Una città anonima, almeno agli occhi degli Occidentali o almeno per i miei (ne ho scoperto l'esistenza solo scorrendo con il dito il corso del fiume dalle sue sorgenti verso Shanghai), famosa per produrre due sostanze note per il loro potenziale distruttivo, l'uranio e il bai jiu, la seconda acquavite più bevuta dai Cinesi.

Dopo una colazione tutta cinese ma sicuramente migliore delle stanze dell'hotel di Leshan (un vero peccato per questo hotel lasciato andare in rovina che ricorderà in un suo passato più o meno remoto i fasti legati alla posizione centrale e a una splendida vista sui fiumi), a base di gnocchi al vapore ripieni di carne tritata e verdure speziate, alle 8.00 un taxi ci porta alla stazione nella periferia nord della città, ancora addormentata, poca gente in giro e le serrande dei negozi abbassate. Proprio una città da vivere Leshan, altro che Buddha Gigante e tour organizzati in giornata da Chengdu!

La strada che da Leshan arriva a Yibin è un massacro, 4 ore di autobus come previsto si riducono a sole 3 ore e quaranta minuti di inferno, autobus sporco, i sedili che rompono il fondoschiena e che obbligano a un Ballo di San Vito per diminuire il dolore, un autista costantemente attaccato al clacson che si sente persino dentro al mezzo. Un vecchio scatarra tra i sedili, accucciandosi nella speranza di non essere visto, una Cinese dorme appoggiata al sedile davanti, continue soste lungo la strada per caricare ora delle persone, ora un ingranaggio in ferro mezzo arrugginito delle dimensioni di una ruota. La strada pessima nel primo tratto, almeno finché non si arriva all'autostrada a due carreggiate separate, piena di buche, in un tratto sterrata con solerti gruppi di operai che, incuranti del traffico e schivati come birilli dagli automezzi in transito, cercano di coprirla con asfalto. Come mi è capitato di notare in tutta la Cina percorsa via terra, non c'è un solo chilometro di strada che non sia abitato, gli unici punti di nulla mi è capitato di trovarli nell'alto Yunnan, a Zhongdian, la prima periferia del Tibet. Mi colpisce soprattutto un villaggio che attraversiamo a tutta velocità, cosa che non mi impedisce di osservare le facce delle persone, tutte ma dico tutte con il sorriso sulle labbra o ridenti.
Tra un film “sparatutto” e una serie di canzoni Karaoke, arriviamo alla sosta, circa a metà strada, in un parcheggio di autobus con le immancabili bancarelle che vendono cibo, un cesso inavvicinabile e venditori ambulanti di pannocchie bollite e collane di fiori profumati che salgono sull'autobus per vendere la mercanzia.

Arriviamo a Yibin, nella stazione dei pulmann, subito a fare il biglietto per il giorno successivo per Chongqing, dove ci imbarcheremo per la traversata dello Yangtze in barca. Tra numeri scritti a penna sulla guida, il far leggere i caratteri cinesi relativi a “domani mattina” all'addetta alla biglietteria e con l'aiuto di un ragazzo giovane che spiccica due parole di approssimativo Inglese, riusciamo a ottenere due biglietti per Chongqing, 89 yuan a testa e quattro ore di viaggio che si spera siano migliori di quelle di oggi anche se, guardando la cartina dovrebbero essere tutta di “autostrada”.

Cerchiamo di prendere un taxi ma i primi due cui mostro il biglietto stampato il giorno prima a Leshan ma ottengo solo due scrollate di testa perché è troppo vicino e un cenno del dito indice della mano sinistra a indicare un punto fuori dalla stazione, vicino per loro ma lontano per noi che abbiamo i bagagli e non abbiamo la minima idea di dove dobbiamo andare. Sbatto la portiera di un taxi mandandolo affanculo ad alta voce, con molta maleducazione (ma quando ci vuole ci vuole), finché mi avvicino a un poliziotto e a gesti lo conduco vicino a un taxi, che ha appena scaricato due persone. Gli faccio capire di chiedere lui di farci portare in hotel e il tassista, con sguardo incazzato ci fa cenno di salire.
Effettivamente il tragitto è breve, a dir poco 3 minuti ma non vedo cosa ci sia di male a guadagnarsi 4 yuan (più uno di mancia per la cortesia, che fa tornare subito il sorriso al tassista) facendo il giro dell'isolato.

L'hotel Yin Long Rong Zhou di Yibin è posizionato proprio vicino alla stazione dei pulmann, appena fuori dallo svincolo dell'autostrada, quindi lontano dal centro come mi mostra la ragazza della reception su una cartina rigorosamente e solamente in Cinese (5 yuan). Il prezzo basso (250 yuan) per un 4 stelle, maestoso con una hall “cinese” marmo e corrimano luccicanti, un ragazzo in giro con una paletta elettrica a uccidere insetti immaginari, camere enormi e bagni ancora di più, pulite come da Kunming non mi capitava di trovarne, è dovuto proprio alla lontananza.

Il solito rito di una birra appena arrivato in un posto nuovo, nel bar dell'hotel, quasi a provarne l'ospitalità. Mi siedo al Cafè Milan, una serie di tavolini con vista sulla hall, tra parapetti in cristallo, tende di perline e luci a led degli alberi di Natale, una serie di tavoli più grandi all'interno rinchiusi da separé, per nascondere chissà quali incontri e tristemente bui e vuoti, grandi fotografie di caffè troppo lunghi nelle tazzine e chicchi di caffè troppo chiari. Senza chiedere nulla mi portano un Budweiser: grandiosi! Immagino il conto salato, le birre Occidentali costano sempre tanto, almeno il doppio di una Tsingtao, non meno di 20- 25 yuan, invece le ragazze che mi hanno portato la birra (qui sono due non una come sarebbe più normale) quasi con soggezione mi porgono un conto stratosferico di 12 yuan.

Constatiamo come in Cina, ovunque si vada, qualunque città o paesino, per insignificante che sia ha qualcosa che ti colpisce, ogni posto ha una storia da raccontare o un luogo caratteristico da ricordare. Yibin è così, insignificante secondo la guida, bellissima città di fiume, più di Leshan, circondata da colline e dai due fiumi principali, Min e Jin Sha con la loro continuazione Yangtze. E' proprio sulla collina a Ovest che decidiamo di salire.
“basta seguire la strada principale est-ovest”, come sembra dalla piantina in Cinese che ci hanno dato in hotel. Peccato che, arrivati al termine della strada si presenta davanti a noi si la collina, ma sbarrata da un un muro di case fatiscenti.
Due ragazzi che ci vedono alle prese con la piantina, nel tentativo di raccapezzarci, ci indicano la strada, dapprima noi diffidenti, “vorranno soldi?”, poi capiamo che in Cina l'ospitalità è sacra, soprattutto se sei un Occidentale in una città che vedrà 10 turisti stranieri in tutto l'anno.
Attraversiamo i binari di una ferrovia, saliamo due scalini e capiamo subito che, o troviamo il modo per salire con un taxi, un risciò o il trenino turistico su ruote che vediamo passare oppure la faccenda si fa lunga, oltre che faticosa dato che è uscito il sole.
Casualità troviamo lo stesso tassista che ci ha portato dall'hotel in centro, un ragazzo paffuto con gli occhiali che ci fa cenno di aspettare lì dove ha lasciato l'auto, accesa, perché va in casa a portare un malloppo di soldi guadagnati.
La solita guida spericolata e siamo a metà della collina, in un punto di ristoro da dove partono una serie di scalinate ripide.
La collina è tutta costellata di templi, piazzole di sosta con punti di ristoro o semplicemente di aggregazione, dove troviamo gente che gioca a Mah-jong e a carte. Templi attaccati gli uni agli altri, le pareti quasi si sfiorano e salendo le scalinate puoi saltare sul tetto di quello che hai appena lasciato. Arriviamo in cima alla collina, c'è una torre di osservazione da cui si ha una bella vista di Yibin e della confluenza dei due fiumi, anche se, scoprirò verso sera costeggiando il lungofiume, che il punto migliore per osservare la città e i fiumi è da una collina a nord, con una bella pagoda sulla sommità.
Scendiamo con una seggiovia lentissima e passiamo nella zona più derelitta e squallida di Yibin, un vero e proprio ghetto fatto di strade sterrate, case mezze distrutte ma abitate, buie, le sbarre alle finestre spesso mancanti, vetri rotti coperti dal cartone, scale luride che portano a ballatoi invasi da panni stesi. Cataste di carbone ovunque, segno che gas ed elettricità in questa zona non sono ancora arrivate. Eppure non una volta ci sentiamo in pericolo, magari fuori posto sì, noi sudati ma comunque con vestiti che fino a due ore prima erano puliti. E in contrasto, in lontananza i grattiacieli moderni con i ponti sospesi sui fiumi.
Pian piano, ci incamminiamo verso il lungofiume. Bellissime le stradine interne, vera Cina, caotiche, profumi di cibo che si mischiano al tanfo di urina e sporco, gente che ci guarda curiosa ma positiva. Bancarelle di cibo, come al solito, dove prendiamo i soliti panini bolliti ripieni, una bontà per soli 5 centesimi di euro. Ovunque ci sono zone ricreative con campi da pallacanestro e una miriade di tavolini all'ombra degli alberi dove persone di tutte le età giocano, quasi tutte scommettendo soldi.
Passiamo in una via dove ci sono i “veterinari”, con quattro cani crocifissi, legati proni a ogni singola zampa e con una flebo infilata. C'è un dentista con la poltrona in vetrina, aperta sulla strada, mi avvicino e faccio segno come un bambino al collega di una ventina d'anni che anche io sono come lui, sollevando risate dall'altra parte del vetro.
Il lungofiume è pieno di barconi che fanno servizio ristorante, tutti in stile cinese (che non so quale sia), in legno, minuziosamente arzigogolati, su più piani. Vediamo gente che lava gli scooter nell'acqua color caffelatte, che chiacchiera con i piedi a bagno, c'è chi fa il bagno e mi chiedo con che coraggio, se proprio non per il colore dell'acqua almeno per la forza della corrente.
Arriviamo alla confluenza dei due fiumi, scorrono velocemente e nel punto in cui si uniscono sembrano fermarsi. Sentiamo della musica che proviene dalla piazza soprastante, c'è una festa organizzata da due marche di birra locali che ha approntato dei banchetti come fosse una sagra delle nostre parti, solo che il cibo in vendita non sembra di nostro gradimento.

Si è fatto tardi, ormai. Entriamo in un ristorante cinese frequentato da giovani e qui inizia la tragicommedia. Menù in Inglese o con fotografie nemmeno a parlarne, la cameriere ci mette davanti il solito menù inserito in supporti di plastica, tutto in ideogrammi. Mi alzo e indico i piatti di quelli che stanno mangiando accanto a noi ma sembra non capire e mi parla in cinese. Arriva una collega con il taccuino, con il dito entro nel piatto dei commensali, tutti si mettono a ridere ma almeno sembra che lo show abbia avuto l'effetto desiderato dal momento che scrive qualcosa che sembra un'ordinazione. Attendiamo dieci minuti e vedo arrivare un'altra cameriera, diversa dalle due precedenti che ci dice
“Welcome”
e ci mette sotto il naso ancora lo stesso menù in Cinese.
Non ci resta che pagare la birra bevuta nell'attesa e uscire e cercare un fast-food, un odiato fast food. Invece capitiamo in un Dico's, una copia di KFC con pollo e hamburger di pollo, piccantissimi ma “meno” unti: gremito all'inverosimile nonostante si spenda il triplo di un normale pasto per strada, come hanno sempre fatto da secoli qui in Cina.

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