MOMA

MOMA

martedì 5 agosto 2008

03.8.08 h 18.40
Zhongdian.

Al Pacific Rim Hotel non serve la sveglia, appena iniziano a lavorare viene accesa la musica nei corridoi, una musica d'ambiente, Richard Clayderman, sarebbe anche rilassante se non fosse sparata a tutto volume.
La colazione è una tragedia, un bancone pieno di piatti e pentole pieno di zuppe di qualunque colore e consistenza, verdure bollite, fritte e sottaceto, insomma o hai lo stomaco di ferro e il raffreddore oppure non si può toccare nulla. Latte di yak, the e degli gnocchi stufati con una specie di wurstel è l'unica cosa che riesco a mangiare.

Con gli autobus raggiungo il Monastero più importante del Nord dello Yunnan, il Tempio Songzanlin, una storia di centinaia di anni anche se quello attuale è stato ricostruito negli ultimi decenni in quanto, anche qui ciò che non avevano distrutto gli incendi è stato distrutto dalla Rivoluzione Culturale.
Alla reception dell'hotel mi faccio scrivere su un foglio, in caratteri cinesi, i nomi del tempio e di un lago a 15 chilometri a nord di Zhongdian, il Lago Napa. Qualunque foglio, di qualunque dimensione, abbiano in mano i Cinesi, si può scommettere che scriveranno in piccolo in alto a destra, con una grafia tutt'altro che da calligrafo.
Esco in strada e salgo su ogni pulmann che passa agitando sotto il naso dell'autista il foglietto indicando il monastero. Dopo una serie di “no” ricevo una risposta affermativa dal numero 2 e mi accomodo in fondo al minibus, con gente che fuma, sputa dai finestrini e parla al cellulare. Un colpo di clacson e un urlo fuori dal finestrino ferma un altro autobus, mi fanno cenno di cambiare e prendere il 3, tra parole cinesi e gesti fanno qualunque cosa pur di aiutarti.
30 yuan pagati al monaco a un posto di blocco con un filo teso con appese delle bandierine e si arriva al Tempio di Songzanlin. Il colpo d'occhio è eccezionale, non sono mai stato in Tibet e non ho visto il Potala se non in fotografia, ma questo complesso maestoso di edifici rossi comunque è impressionante. E' circondato dalle montagne con ai piedi una distesa verde e un lago e accanto è sorto un villaggio lungo le pendici della collina, quasi verticalmente.



Il tempio, che ospita circa quattrocento monaci, dai bambini ai più anziani, consiste in cinque o sei strutture più grandi, di cui quella centrale con la sala della preghiera e una serie di statue delle divinità. Le sale si percorrono in senso orario, sono buie, illuminate solo dalla luce del sole che filtra attraverso le poche finestre in alto e dalle candele di burro di yak, tutte in legno. La sala principale ha delle panche molto basse con cuscini sgualciti dall'uso e dagli anni, disposte perpendicolarmente alle statue. All'ingresso un banchettino gestito da due monaci vende collanine e braccialetti, un monaco vuole a tutti i costi fare una fotografia con la Noblex che mi porto dietro e che suscita interesse e curiosità da parte di tutti. Hai voglia a spiegargli che c'è pochissima luce e che non esce nulla. Altri due monaci, uno giovane e uno anziano, circondati da un telo di plastica, danno la benedizione ai fedeli consegnando loro incenso e un rosario da polso, mentre i fedeli lasciano l'offerta in una scatola di cartone. Sembra un supermercato, il monaco anziano dà la benedizione, il giovane divide i soldi in base al loro valore in tante piccole montagnette.
“No fiamme libere” recitano i cartelli appesi sui pilastri di legno ma le candele di burro di yak sono delle torce con fiamme dense, alte e impossibili da spegnere. Il percorso dei fedeli consiste nell'inginocchiarsi di fronte al Buddha all'ingresso della sala, ricevere la benedizione, accendere l'incenso e, chi vuole, aggiungere burro di yak fuso ai bracieri, far scivolare dei semi sulla ricostruzione in metallo di un tempio e bagnarsi mani e testa con una specie di scopino.
E' l'ora della preghiera, una campana richiama i monaci nella sala principale che si siedono accucciati sulle panche. Due monaci anziani mettono un enorme copricapo giallo a forma di cresta di gallo e con un bastone di metallo tutto lavorato, tipo i tubi per mettere i progetti ma quadrato, girano lentamente attorno ai monaci per tre o quattro volte. Inizia poi la preghiera, ritmata, musicale, anche se non ci sono suoni, e ipnotica.
Il tempo sembra non passare ma non mi accorgo che sono già tre ore che giro a zonzo per il tempio, rapito dall'atmosfera magica e misteriosa.
Riprendo l'autobus che porta in città per cercare il modo di arrivare al Lago Napa.
Scendo vicino al mercato, dentro ormai non c'è più nessuno, le contrattazioni avvenono all'esterno dove donne con gli abiti tradizionali, vecchie e giovani con bambini sporchi e pulciosi, vendono ai banchetti i funghi della zona, alcuni sembrano porcini, altri sono gli stessi che si vedono sui cumuli di letame in campagna.

Chiedo informazioni al Tibet Cafè, un bar “Lonely Planet” dove tutto il ricavato va a sostegno della comunità tibetana, anche se un cartello accanto alla cassa, un poliziotto con il dito puntato, ricorda che questa è sempre Cina.
Non ci sono autobus e l'unico modo per arrivare è il taxi, tra andata e ritorno e ingresso costerà 150 yuan.
Fermo il primo taxi, 30 yuan per un viaggio di una ventina di minuti attraverso un passo di montagna fino a scendere nuovamente in un vastissimo altopiano. Mi lascia all'ingresso e mi dà il biglietto da visita, facendosi capire a gesti che, quando ho finito, posso chiamarlo che mi viene a prendere. Vedremo.
L'ingresso è di 30 yuan (e siamo già a sessanta), una passerella di legno e si arriva al bordo della vastissima distesa verde.
A perdita d'occhio solo verde, nemmeno un albero solo un'erba bassissima, circondato dalle montagne in lontananza. E ovunque animali liberi, cavalli, maiali neri delle dimensioni di un cane di taglia media, pecore, mucche, yak (li vedo dal vivo per la prima volta, neri, enormi, un pelo spesso della consistenza delle scope, uccelli di qualunque genere. Migliaia di animali che mangiano e riposano, un silenzio religioso interrotto ogni tanto dal nitrire dei cavalli, dai maiali e dalle vacche. Sullo sfondo, a una mezz'ora di cammino c'è il lago di cui si intuisce la presenza per via della zona che riflette il sole, in quanto non è un lago come lo intendiamo noi: questo vasto altipiano in un punto è così allagato che si è formato un lago, non è che nelle altre zone sia asciutto in quanto è impossibile camminare senza trovare uno spesso strato di acqua al di sotto dell'erba. Mi incammino per una decina di minuti ma poi devo tornare indietro a meno di non bagnarmi tutto. Chiedo se è possibile che qualcuno mi accompagni a cavallo: 60 yuan! E' la prima volta che salgo su un cavallo, sicuramente più comodo del dromedario marocchino ma dopo pochi minuti fa già male il culo. Bello, bello, bello! Io che ho sempre amato le città, e più sono caotiche e meglio è, sto riscoprendo in questi ultimi due giorni la Natura. Tra andata e ritorno ci vorranno un'oretta, compreso l'avvicinamento al lago dove un pazzo in moto sta correndo alzando una colonna d'acqua, con gli animali che sembrano non accorgersi di nulla.
Torno all'ingresso e non ci sono taxi. Chiedo con qualche parola di cinese letta sul frasario, altre volte facendo leggere direttamente i caratteri cinesi quando la parola è troppo difficile da pronunciare correttamente, come posso fare a tornare a Zhongdian. Uno delle persone che lavora lì mi fa chiaramente capire che non ha voglia di guidare, altri taxisti non rispondono alla chiamata. Chiedo allora di scrivermi Zhongdian su un foglio, andrò sulla strada principale a fare l'autostop. Di macchine che scendono dal Tibet nemmeno l'ombra, solo qualche camion che però non si ferma ai miei cenni. Si ferma un primo minivan guidato da un signore anziano con l'aria furba che mi chiede 50 yuan. Me ne vado e attendo, finché si ferma un pulmino guidato da un ragazzo grasso che sta portando in città una persona, mi chiede 20 yuan e sono contento: sono riuscito a risparmiare 10 yuan sulla cifra che mi aveva detto il proprietario del Tibet Cafè, praticamente poco meno di 1 euro. E' incredibile come, quando viaggi in questi posti dove il costo della vita è praticamente nullo, perdi completamente il valore dei soldi, o meglio entri nella loro unità di misura. 10 yuan è il prezzo di un pacchetto di sigarette di buona qualità, il prezzo di un pasto in un ristorante frequentato dalla gente del posto (non dai turisti), il prezzo di 10 corse in autobus, il prezzo di una corsa in taxi a Kunming, il costo di una birra media. In Italia con 95 centesimi di euro (questo è il reale valore di 10 yuan), non ti compri un quotidiano, in alcuni posti non bevi nemmeno un caffé, forse non sali sull'autobus. Eppure 10 yuan, dopo quasi 10 giorni di permanenza nello Yunnan sono qualcosa per cui contrattare anche per dieci minuti, non tanto per il gusto di farlo, ma perché ti sembra di perdere una cifra enorme se cedi.
Il pulmino mi lascia all'ingresso nord del paese, dove c'è la vecchia piazza di Zhongdian. Si possono riconoscere tre piazze principali a Zhongdian, quella vecchia è a sud, è la piazza del mercato nel cuore della città vecchia tibetana, quella “comunista alla Mao” è a nord, poco prima che la strada principale si biforchi, quella “nuova alla capitalista cinese” è al centro tra le due, dove sorge un lago finto con passarelle di legno e che fa da sfondo a un mastodontico edificio rosso, nuovo anche questo.
Così cammino pian piano verso l'hotel, altro che 1 chilometro di estensione di Zhongdian, come riporta la guida Lonely Planet che avrà a dir tanto tre anni. La strada non finisce mai, ovunque ai lati sono nate strade perpendicolari stracolme di negozi dai colori sgargianti e dalla musica ad alto volume messa in strada per attirare gli acquirenti come fanno i fiori con i colori più strani e i profumi. Sono frequenti i poster, sui tetti delle case che, nonostante non riesca a riconoscere un solo carattere cinese, sono chiaramente un avvertimento alla popolazione che lo Yunnan non fa parte della Cina, è della Cina: militari in posa davanti a catene montuose rosse per l'alba o per il tramonto, i quattro volti dei Padri della Patria, Mao, Deng Xiao Ping, Jang Zeming e l'ultimo presidente Hu Jintao (o Wen Jiabao, non saprei), sorridenti. Una truppa di militari sta correndo lungo uno dei corsi d'acqua per allenarsi, uno schieramento di militari in uniforme verde e i guanti bianchi camminano sul ciglio della strada, 7 file da 3 ciascuna, con il passo coordinato e cadenzato, manca solo il passo dell'oca. Il primo della fila mi guarda torvo, forse ha paura che scatti qualche fotografia, ma non ci penso nemmeno dopo l'esperienza di Dali.

Anche questa sera fa freddo, non c'è vento, sarà anche qualche goccia d'acqua che scende dalle poche nuvole, pioggia e sole insieme.
In un negozio di antichità trovo un meraviglioso teschio vero, ricoperto da scaglie di rame sul naso, sugli zigomi e il mento, i denti sostituiti da una struttura lavorata, gli occhi dei globi di metallo e legno. Una meraviglia, il prezzo di 750 euro non è assolutamente trattabile e me ne vado via sicuro di aver lasciato per la strada un pezzo unico.
Camminando per lo Yunnan, ma è così ovunque in Oriente, ho visto cose che voi umani non potreste immaginare... navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire... Ho visto una mamma, seduta sui gradini di una bottega, che teneva in braccio un bimbo di pochi mesi che dormiva appoggiato all'avambraccio sinistro: nella mano sinistra un cetriolo, nella destra un machete, un coltellaccio con una lama di quindici centimetri di lunghezza e di almeno sette di altezza. Passaggi veloci per togliere la buccia del cetriolo, con la punta della lama che passa a pochi centimetri dalla testa e dagli occhi del bambino. Anche questa è Asia. Come il ragazzo che mi dà un passaggio dal Lago Napa che sputa dal finestrino ma sbaglia mira e metà catarro rimane all'interno del vetro, pulendolo poi con la manica della giacca.

Mangio qualcosa al Traveller's Pub dell'Ostello della Gioventù, anche perché sono sicuro che ha la connessione Internet wireless gratis. Accendono un braciere in mezzo alla stanza per riscaldare, e l'aria si riempie di odore di camino.

Zhongdian, a parte il quartiere vecchio tibetano che, come a Lijiang, se si riuscisse a osservare senza turisti e senza negozi di souvenir sarebbe meraviglioso, merita uno strappo di 180 chilometri da Lijiang e un po' di fiato corto per via dell'altitudine anche solo per gli scenari Naturali e per il Monastero Songzanlin. Sean l'aveva definita “Bullshit town”, una stronzata di città, non ha tutti i torti anche se lui, profondamente tibetano, penso fosse più critico riguardo all'imbastardimento Han che il Governo centrale sta cercando di fare sulla popolazione, creando strade commerciali tipo Beijing, facendo passare la torcia olimpica, dirimendo con la forza le manifestazioni pro- Tibet che ci sono state nei mesi scorsi.

Ci saranno centinaia di taxi che girano per Zhongdian ma, per la seconda sera consecutiva, fermo la stessa macchina di ieri sera. Lui mi riconosce subito, tant'è che guarda appena il foglio con l'indirizzo in Cinese dell'hotel, e mi sorride; io faccio due più due quando vedo un cavo elettrico penzolante dal cruscotto di quelli che servono a collegare tra loro delle strumentazioni elettroniche.
Quante coincidenze in questo viaggio!

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