MOMA

MOMA

giovedì 7 agosto 2008

05.8.08 h 18.00
Chengdu.

“100 yuan per due colazioni??!! Ma se solo l'hotel ne costa 400!”

Dopo l'invito dell' Assistant Manager a provare la colazione del 3° piano e dopo aver sentito dalla cameriera il prezzo che avremmo pagato decidiamo di affidarci a quello che incontreremo per la strada.
Ci dà buca Starbucks, prezzi folli ovunque, in Cina come in Giappone o in Italia, continuando a non capire come si possano spendere dei soldi (e tanti) per un caffè al gusto di banana, ciliegia e chi più ne ha più ne metta o brioche e dolci di qualunque colore.

“Colazione da McDonald's?”
“Se proprio non c'è altra scelta...”
Siamo nel cuore di Chengdu e possibile che non ci sia una bettola che faccia le colazioni? E' proprio questo il problema, essendo capitati con l'hotel in centro, tutto grattacieli e uffici, grandi magazzini e banche, il solito pragmatismo tutto cinese ha fatto piazza pulita di ristorantini spostandoli appena fuori. Stiamo per scendere le scale di un McDonald's quando, nel semintarrato di un supermercato, compaiono i ristoranti che cercavamo, ben coperti per non dare una cattiva impressione (come se l'Occidente fosse preoccupato per queste cose e non per la violazione dei diritti umani, il Tibet, l'inquinamento o la Diga delle Tre Gole che ha fatto spostare qualche milione di abitanti di altre zone, dopo migliaia di anni). Finalmente una colazione come si deve e a basso costo, riso con cipolle, prosciutto, piselli, carote (il classico “liso alla cantonese”), pane al vapore e fritto con una stupenda crema di riso e della pasta di frittelle): 14 yuan.

Il trekking sui Monti Emei (Emei Shan) è saltato, una delle quattro vette sacre per i Buddhisti cinesi è stato accantonato vuoi per pigrizia, vuoi per cercare un po' di cemento e acciaio dopo 9 giorni di Natura, o semplicemente per girare senza una meta, senza dover “arrivare” per forza in qualche punto. Anche se mi accorgo che mi manca qualcosa, l'aria pura dello Yunnan e la gente calma anche se indaffarata nel lavoro sempre uguale da generazioni.

Sembra che uno dei passatempi preferiti dei Chengduensi o Chengduesi o Chengduini (non so come si chiamino) sia mettersi in cima agli attraversamenti pedonali delle grandi arterie di scorrimento attorno alla piazza con la statua di Mao e osservare il traffico che scorre. Il cavalcavia pedonale di fronte al nostro hotel è stipato di gente al parapetto, che mangia, fotografa o semplicemente osserva la quantità immane di gente accalcata e biciclette disposte confusamente agli angoli delle strade, in attesa che il conto alla rovescia dei semafori trasformi il rosso in verde, con l'addetto al traffico, quasi sempre una persona su d'età, abbassi la bandierina come in una gara podistica. E dall'alto di questi ponti si può finalmente capire come mai i cinesi stiano per arrivare ai due miliardi.

Le persone vivono la sofferenza perché non realizzano quale sia la loro vera faccia, credono di appartenere solo a loro stessi. Così paragonano loro stessi con le altre persone e quindi pensano che stanno soffrendo. In realtà, tuttavia, tutti siamo parte della Natura- Parabola Zen del Tempio Wenshu.

Un taxi ci porta a nord al Tempio Wenshu in una zona “veramente” Cinese questa volta, anche se piena di negozi di souvenir incentrati sul Buddhismo, incenso di ogni tipo, urne per le ceneri dell'incenso e dei morti, statue dei vari Buddha e campane. Il tempio Wenshu, bello ma uguale a tanti altri in Cina, ci occupa parte della mattinata, girando per i vari padiglioni di cui non riesco a ricordare i nomi, l'unica cosa interessante uno stagno pieno di tartarughe d'acqua in movimento, una rovesciata sul guscio cerca in tutti i modi, da chissà quanto tempo, di raddrizzarsi con tutti che la guardano, altre ammassate l'una sull'altra su rocce e tronchi d'acqua. In giro si vedono solo monaci con una tunica grigia della setta zen del Sichuan. Grigio, rosso, zafferano, rosa, Buddha con tante braccia e tanti occhi, alcuni magri e slanciati, altri grassi e con i lobi delle orecchie che toccano le spalle: mi toccherà comprarmi un libro per capirci qualcosa, prima o poi.

Ancora più a nord, in una periferia ancora in costruzione e rigorosamente in verticale c'è lo Zoo di Chengdu con i famosi panda giganti. Ci entriamo solo perché la guida ci dice che è l'unico modo per visitare un altro tempio che ospita un monastero buddhista, il Tempio Zaojue,

Uno zoo inquietante, degli unici tre panda uno dorme sulla schiena, uno su una gabbia di ferro e un altro, rimasto fuori nella vasca con il giardino, gratta con la zampa la porta cercando di rientrare al fresco. Per il resto un senso di tristezza per questi animali, niente a che vedere con l'hotel a 5 stelle che sembra lo zoo di Berlino, persino per i serpenti chiusi nelle loro teche di troppo piccole e con troppe persone che picchiano i pugni sul vetro cercando di attirarne l'attenzione.
Ovunque ci sono chioschi che vendono cibo caldo, noodle istantanei e “American Pistachio” così sbiancati con la candeggina che hanno perso persino il sapore.

Finalmente troviamo il tempio, molto più tranquillo di Wenshu forse perché più lontano, anche più economico (2 yuan l'ingresso) e tutto sommato interessante anche se non entusiasmante.

Usciamo da un'altro ingresso che non è quello del tempio solo per capire che avremmo potuto risparmiare i 16 yuan a testa e non vedere quelle povere bestie incarcerate non certo per qualche colpa se non nostra, per il nostro diletto.
Ci troviamo sotto un cavalcavia pieno di risciò che non vogliono riportarci in centro perché troppo lontano, taxi che vorrei evitare per risparmiare magari un euro e, ostinatamente, cerco di capire quale autobus prendere. Chiedo a un poliziotto seduto accanto a un monaco all'ingresso del tempio,

“da ba, Chengdu”
il monaco dice delle parole che mi sono familiari
“liou... sə... u”
scrivo su un pezzo di carta 645 ma dall'espressione mi pare di intuire che non ho capito un cazzo. A gesti chiedo al poliziotto di scrivere il numero e ottengo 4 caratteri cinesi in brutta grafia (come se potessi distinguere la bella grafia cinese da zampe di gallina).

Ormai padrone delle strade cinesi, dopo autobus, autostop e incontri che spaccano il minuti in aereoporto, mi getto in strada e chiedo alla prima persona che penso possa capire l'inglese, un ragazzo con una T-shirt dei Giochi Olimpici, quale autobus dobbiamo prendere per arrivare alla piazza di Mao. Un lungo soliloquio in cinese, interrotto solo dall'unica frase che conosco per interrompere questo genere di frequentissimi equivoci,
“uo bu ming-bai, non capisco” (un cazzo mi piacerebbe aggiungere ogni tanto),
ma che, paradossalmente, ha sempre e solo l'effetto di aumentare la quantità di frasi incomprensibili, talvolta a maggiore velocità. E non fa niente che continui a ripetere di non capire, questo povero ragazzo che sta facendo di tutto per farsi capire, anche a gesti, non vuole arrendersi finché Ale mi salva da questa mia situazione imbarazzante chiamando un taxi.

Mai più una “The Rough Guide”, tanto più se l'edizione risale e 4 anni prima, a maggior ragione in un Paese come la Cina che da un giorno all'altro non è più la stessa (non è come andare a Venezia, sempre uguale a sé stessa, oggi come al tempo dei Dogi, solo un Harry's Bar qui e un McDonald's lì in più). Cerco disperatamente un Internet Point dove scaricare la posta e aggiornare il blog e sulla guida leggo che in una strada a sud della piazza c'è una famosa guesthouse, Sam Backpacker's, per viaggiatori occidentali e che attorno, di riflesso, sono nati dei bar con connessione internet. Giriamo, rigiriamo, la strada in questione è solo una serie di negozi di abiti sgargianti, di carnevale dice Ale, non tanto convinto che sia così io, più propenso al fatto che siano abiti eleganti per occasioni importanti.
Ci infiliamo alla fine in un locale “alla moda” frequentato da giovanissimi, dove è tutto a base di the, nemmeno una birra, una coca cola, solo beveroni con the ai vari gusti e panna montata, il mio con delle caramelle gommose sul fondo al gusto di... the, per Ale un sandiwich fatto da una fetta di pane tostato spessa due centimetri con uno strato caldo e unto di burro di arachidi.

Che dire di Chengdu? Sicuramente non è una città in cui passarci una settimana, tutto sommato non ha grandi opere architettoniche del passato o storia più o meno recente da insegnare, solo qualche tempio qua e là come ce ne sono altri in Cina, un nel centro moderno con grandi magazzini e negozi della loro moda. Può essere una buona sosta di un giorno, due al massimo per farsi travolgere dalla frenesia della nuova classe media Cinese, quella che sta scalando a tutti i costi i gradini del benessere, prima un frigorifero, poi l'aria condizionata, poi il cellulare e l'automobile, un domani i viaggi all'estero, per il solo gusto di non avere niente da fare se non mangiare la piccantissima cucina del Sichuan, osservare con la testa all'insù le punte dei grattacielie passeggiare per le zone pedonali a osservare i giovani. Incredibile come ci sia sempre una folla incredibile in giro per le strade, a far nulla, a mangiare ai numerosi banchettini di spiedini di carne, pesce e tofu da friggere e condire con peperoncino, a fotografare la statua di Mao, a contrattare le magliette nei negozi. Sembra una città di villeggiatura e non un centro nevralgico dell'economia Cinese ma non si tiene conto del fatto che la popolazioen ha da un bel po' superato il miliardo e seicento milioni, quindi se anche il 90 percento dei cittadini di Chengdu lavora e un misero 10 percento è in giro a bighellonare, si tratta pur sempre di ottocentomila, un milione di persone che si riversano nelle uniche zone interessanti, i parchi, la piazza principale e i templi. Quando si viene in Cina è meglio lasciare a casa gli stereotipi cui siamo legati, o i termini di paragone, e raffrontarci con un Popolo sterminato che abituata a mangiare a qualsiasi ora del giorno e della notte come a sputare per terra o ad urlare ad alta voce al cellulare ma, di propria spontanea volontà o per imposizione dall'alto, sta passando verso dei costumi più “occidentali”, non per forza migliori.
“Gli hanno dato una bella ripulita” dice Ale, ma non sono sicuro di preferire questa Cina a quella ancora spontanea dello Yunnan, sicuramente questa è più facile da girare, belle strade, semafori, quasi solo cucina occidentale nelle zone centrali con le solite catene di fast- food, ma manca qualcosa di Cinese. Quando esci nel centro di Chengdu potresti essere in uno dei quartieri ipermoderni di Tokyo, nulla che ti tenga legato alla Cina, non un filo conduttore, se non i caratteri Cinesi sui cartelloni pubblicitari, che unisca lo Yunnan a Shanghai, dove pian piano arriveremo.

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