MOMA

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martedì 28 dicembre 2010

Battambang

27 dicembre 2010

Sveglia presto, alle 6 dopo un’altra nottata accompagnata dal “tunz tunz” del night club vicino all’hotel, per andare a Battambang, la seconda città della Cambogia e una delle più affascinanti.
Gli orari di partenza sono in quanto, l’autobus che dovrebbe partire alle 7.45 lascia un affollatissimo, caotico e brulicante piazzale sul retro del Psar Thmei con venti minuti di ritardo dal momento che la biglietteria ci fa partire quando abbiamo raggiunto un numero sufficiente di persone. Anche uscire da PP non è facile a causa del traffico congestionato del lunedì mattina. Costeggiamo il Tonle Sap per un bel pò e ben presto le bancarelle che vendono qualunque cosa si possa pensare di poter acquistare o anche solo buttare lasciano il posto a campi incolti. I monaci sono per la strada con la ciotola delle offerte, macchie arancioni con la punta gialla dell’ombrello che a gruppi di due o tre al massimo camminano sul bordo della strada fermandosi di tanto in tanto davanti a un esercizio commerciale o a un ristorante: e, senza nemmeno chiedere, ecco che le persone arrivano con le offerte.

La strada per Battambang è tutt’altro che un’autostrada anche se si può considerare l’arteria principale della Cambogia, è un nastro nero di asfalto che taglia la vasta pianura a sud ovest del lago Tonle Sap. Piena di avvallamenti e con una striscia arancione tratteggiata al centro della strada, costringe a uno zig zag tra carretti, motorini, pick-up che trasportano di tutto e altri autobus.
A destra e sinistra campi con palme, due tipi di case: palafitte in legno o le ville a tre piani con il tetto colorato e gli immancabili balconi con le balaustre di metallo lucido cromato, una particolarità della zona.
Numerosi sono i corsi d’acqua che, nonostante l’inizio della stagione secca, mantengono la zona di un verde intenso.
I punti di ristoro lungo il tragitto, quelli dove si fermano gli autobus per far mangiare o solo sgranchire le gambe ai viaggiatori che percorrono il tratto tra Battambang o la frontiera con la Thailandia a Poipet, sono delle capanne e nulla di più, quella più rinomata ha costruito sul retro una palazzina di 4 piani, nuova e lucida, sintomo che questo tipo di affari rende nella campagna cambogiana.
Nessuna coscienza ecologica in questi posti, il retro è un gigantesco cumulo di pattumiera che viene spostata dai cestini tra i tavolini degli avventori ai margini dei campi di riso, dove nessuno la porterà via.

Dopo sei ore e mezzo di autobus dai sedili scomodi, due fermate per mangiare e fare i propri bisogni in vere e proprie latrine, arriviamo a Battambang, una città polverosa lontana decenni, non solo duecento e passa chilometri, da Phnom Penh. Un fiume marrone la attraversa, o meglio, divide la zona centrale e più antica, quella occidentale, da quella nuova orientale.
All’apparenza non è nulla di che se non che ha il fascino di una città di frontiera come potrebbe essere qualunque grande città nella periferia di un Paese lontano: mi vengono in mente la Garni Armena, Yibin o Leshan lungo il corso dello Yangtze, Messina nel Limpopo Sudafricano o Taroudant al di là dell’Atlante marocchino.

Il Royal Hotel non ha nulla di “Reale” ma per 19 euro a camera a notte non si può certo pretendere di dormire in un boutique hotel.
Il tuk tuk ci chiede solo 1 dollaro per portarci dall’arrivo degli autobus (ogni compagnia si ferma in un punto diverso) e non c’è verso né interesse a contrattare dal momento che il resto alle frazioni del dollaro verrebbe dato nella loro valuta, il riel, che continua ad accumularsi nel mio portafogli non avendo quasi modo di spenderlo.
Il Royal Hotel, dunque, già la hall non è invitante, un profondo corridoio buio con tre computer datati sulla sinistra connessi a Internet, una reception che è un banco di vetro alto che quasi nasconde una sonnolente e svogliata ragazza e un taciturno ragazzo che ci parla in francese.
Un paio di tuk tuk man ci circondano mentre facciamo il check-in per proporci le escursioni nei dintorni, “maybe tomorrow” dico per levarmeli di torno.
La stanza, molto grande, è desolante ma a prima vista pulita, a parte qualche macchia sulle lenzuola che personalmente non mi cambiano la vita ma che a una donna possono dar fastidio non ricordandosi che si è in un hotel non classificato di Battambang e non in un quattro stelle, con un bagno in ordine ma oscenamente scarno: lavandino, gabinetto, doccia e specchio di plastica. Non c’è armadio ma uno scheletrico appendiabiti verde metallico con decine di omini di metallo colorato appesi uno sopra l’altro. L’età della stanza, almeno trent’anni se non degli anni Settanta come l’aria condizionata che sembra più il retro di una televisione a tubo catodico o una radio a transistor che uno split tecnologico di adesso.
Ma la chicca di questo hotel è il ristorante sul tetto, il Royal Mini Restaurant (o “rooftop restaurant”) con una vista magnifica a sud della città essendo uno degli edifici più alti della parte vecchia che fa dimenticare il fatto che è ricavato tra panni stesi, docce all’aperto e una cucina come quelle che si trovano agli angoli delle strade. Comunque, è proprio un bel posto, rilassante, “in tema” per il posto in cui ci troviamo, si sposa alla perfezione con la trasandatezza o, meglio, l’essere fuori moda di Battambang: un tavolino di cristallo, un bancone illuminato, una luce soffusa o un pavimento in teak avrebbero stonato come una vetrina di Bulgari a Kabul.
I prezzi sono onesti anche se lo spendere poco è più per mancanza di originalità che per altro: ordiniamo una “baguette with cheese” e mi arriva uno sfilatino di quelli imbustati con un formaggino da spalmare, ma per 1 dollaro non posso pretendere l’alta gastronomia francese.

Ale ha una forte dissenteria quindi me ne esco da solo a esplorare questa città che ancora mi deve conquistare, a dispetto delle lodi che ne tessono sia la Lonely Planet sia Bruno di Torino non riesco a trovare una chiave di lettura se non il contrasto netto e fuori dal tempo con Phnom Penh.
A prima vista ci sono meno mendicanti (ma salteranno fuori verso sera, battendo in lungo e in largo i marciapiedi dei ristoranti), solo dei bambini che si tuffano in una fontana con l’acqua verde, stagnante, tremolante per gli insetti che nuotano in superficie, sguazzando e nuotando come se fossero in piscina.
Le strade asfaltate di Phnom Penh hanno lasciato il posto allo sterrato, soprattutto nelle strade secondaria, quelle disposte orizzontalmente. Le strade verticali prendono, originalmente, i nomi a partire dal fiume Sangker: street 1, 2, 3, ecc. e quelle più piccole, non asfaltate tra una strada e l’altra, hanno il nome 1 1/2, 2 1/2, ecc.
Il mercato centrale, o Psah Nath ricorda nei colori quello di Phnom Penh, questo giallo e come un enorme parallelepipedo sdraiato sul fianco lungo, l’altro come un ragno gigantesco con le zampe che si estendono tra i palazzi. La torre dell’orologio all’estremità est non ha più le lancette, chissà da quanti anni.

Ci godiamo, o almeno io perché Ale ha un’autonomia di poco meno di mezz’ora prima di correre in bagno, il tramonto sui tetti di Battambang e, per associazione di idee o per quei misteriosi processi neuro-chimici del cervello per cui una sensazione ne risveglia, inconsciamente, altre simili e ti fanno venire in mente situazioni apparentemente distanti anni luce, mi viene una voglia incredibile di andare in Marocco, sui tetti di una casa nella Kasbah e osservare lo stesso tramonto sul dedalo di stradine.

A cena, naturalmente, vado solo: Smoking Pot, un bel ristorantino in una traversa di Street 2 1/2 che serve piatti khmer con un buon rapporto qualità/prezzo: noodle fritti con pollo e uovo e pollo all’aglio e pepe, condita dall’ennesima birra Angkor della giornata, per meno di 6 dollari.

28.12.10

Anche la colazione dall’ultimo piano ha il suo perché, soprattutto osservare le file di monaci che dai Wat si dirigono verso il mercato o i ragazzini che giocano a pallavolo in un campo sterrato ricavato tra due condomini, il sole delle otto del mattino è già alto nel cielo, sicuramente molto di più di quello cui siamo abituati noi di questi tempi.
Sono in giro da solo dal momento che Ale ha un’autonomia di poche decine di minuti tra una visita al bagno e l’altra.
Una visita al mercato centrale per comprare una bottiglia d’acqua e due krama, i tradizionali foulard a quadretti bianchi e rossi dei khmer, che vengono direttamente tagliati con le forbici da lunghi rotoli di tessuto, senza fare alcun orlo o bordo. Il tessuto non è cotone ma penso sia una seta vegetale o qualcosa di simile. Un dollaro per ciascun Krama, potrebbe essere tanto, anzi sicuramente lo è, ma qui sono rari gli esercizi che ti vendono qualcosa a meno di un dollaro se vedono che non sei un Orientale.
Contratto con il tuk tuk per l’escursione nella provincia di Battambang dove ci sono dei preziosissimi siti archeologici e storici, testimoni di un antico e glorioso passato quanto di una tragedia immane.
I palazzi coloniali del lungo fiume per cui è famosa Battambang sono rimasti tali e quali alla prima metà del secolo scorso, ormai vecchi e scrostati, il cui colore originario che mi immagino pastello, un colore tenue giallo, rosa, verde o celeste, è stato sostituito dai cartelli pubblicitari dei che hanno invaso il piano terra.

La stazione ferroviaria di Battambang è desolante e sbarrata con i cancelli come quella di Phnom Penh, se non peggio dal momento che non ci sono treni fermi e non penso che ne passino da molti mesi. Il sistema ferroviario cambogiano non è allo sfascio ma semplicemente inesistente, l’unico binario a scartamento ridotto che attraversa il Paese da Phnom Penh a Poipet è ormai invaso dagli erbusti, dalla pattumiera e dalle estensioni sul retro delle case che sono state costruite a ridosso dei binari. Non c’è alcun passaggio a livello, tanto non servirebbe, e chiunque attraversa senza nemmeno dare un’occhiata a destra e sinistra o accennare di rallentare.

La strada dopo pochi chilometri dalla stazione diventa prima una striscia d’asfalto grezzo per poi lasciare spazio a uno sterrato, pieno di buche profonde un palmo che sembrano spezzare a metà il tuk tuk. Una striscia di terra rosso fuoco che contrasta in maniera netta con il verde lussurreggiante della campagna. A metà strada circa tra Battambang e Phnom Banan sorge la prima e unica azienda vinicola della Cambogia, se così si può chiamare una masseria in stile pugliese o siciliano, perché sembra più una casa di campagna del nostro Meridione piuttosto che un’azienda austera sul modello piemontese o con l’opulenza di quelle Sudafricane. Le viti sono piccole, alcune ancora nei vasi ma hanno creato un sistema di irrigazione a goccia assolutamente fondamentale per sostenere il clima torrido e secco di questi mesi dell’anno.
La produzione è di circa 10.000 bottiglie suddivisa tra un Rosso con uvaggio Syrah e Cabernet sauvignon, un Rosè che però è terminato, un Brandy dal sapore dolciastro e uno sciroppo d’uva analcolico.
La proprietaria mi mostra orgogliosa le analisi sanitarie e organolettiche svolte sul vino e la rivista francese “La Vigne” dello scorso giugno dove ci sono due pagine intere sul primo vino cambogiano che, ad essere sinceri, è molto meglio di tanti Cabernet o Merlot che si possono trovare nelle nostre trattorie bergamasche. Il vino che mi fa provare è del 2008 e ha la tipicità, seppure appena accennata, del Syrah e del Cabernet sauvignon, insomma ci si può credere che sia stato fatto con uva. Unico neo il costo, 15 dollari a bottiglia, spropositato considerando la manodopera di qui, un vino simile in Sudafrica non costerebbe più di 10 dollari.

Il Phnom Banan sorge in cima a una collina e vi si accede attraverso una ripida scalinata di oltre 300 gradini. Il tempio ricorda, per forma e disposizione, l’Angkor Wat anche se le dimensioni sono molto più contenute. La vista spazia per chilometri e chilometri a trecentosessanta gradi, una piatta campagna punteggiata di alberi di cocco interrotta, verso ovest, da isolate colline, come escrescenze solitarie.
Una di queste escrescenze è il Phnom Sampeau. Arrivando dal Phnom Banan sembra di vedere il Monte Popa dello Stato Shan birmano in scala ridotta, una collina allungata ma ben definita alla base, punteggiata da un Wat sulla sommità. Capisci che sei arrivato a destinazione, alla base del tempio, perché dal nulla compaiono decine di bancarelle di cibo e sono posteggiati qualche tuk tuk dei rari turisti che arrivano fin qui.
Subito si avvicina la gente del posto che cerca di “venderti” il passaggio in moto per qualche dollaro fino alla sommità della collina, in qualche modo sono anch’io tentato dal momento che fa caldo, il sole cuoce, sono quasi le due del pomeriggio e non mangio da colazione e mi parlano di almeno “one hour” per arrivare in cima. Ma non sarebbe un “pellegrinaggio” se ci arrivassi comodamente come fanno invece tutti, anche perché ci vuole solo un quarto d’ora a passo svelto per una salita ripida, spacca-gambe a quanto dicono giù di sotto, che porta al primo Wat. Nella stessa zona c’è una grotta dove gli Khmer Rossi hanno trucidato oltre quattordicimila Cambogiani, gettando i corpi morti o ancora vivi in un buco nella roccia. Ora nella grotta che raccoglieva i corpi lanciati sorge un piccolo tempio, con un Buddha reclinato di una decina di metri per proteggere questo luogo di dolore.
Un’ultima “arrampicata” di una decina di minuti scarsi e si arriva sulla sommità della collina dove le strutture più alte non sono più i Wat ma le antenne delle radiocomunicazioni, piantate realmente tra un tempio e l’altro. I Wat sono costruiti a picco sulla roccia e alcune delle fondamenta si perdono tra la vegetazione sottostante, tra scalinate diroccate che scendono verso il nulla. Ci sono le immancabili scimmie come sul Monte Popa, anche queste agguerrite e minacciose ma molto più piccole.
Mi avvicina un Monaco chiedendomi da dove venissi e quando gli ho risposto “Italia” mi ha chiesto se ero di Bologna.
“Perché proprio di Bologna?”
“Perché ho un amico” e mi mostra su una rubrica telefonica, di quelle che si tenevano in casa sotto il telefono di bachelite grigia, il nome di questa persona che lo ha aiutato a progettare una scuola per orfani a Battambang. Insieme al suo nome quello di altre decine di persone da tutto il mondo con, riportato accanto all’indirizzo email, l’importo donato. Io, tra offerte ai vari templi, ingresso agli Phnom, vino acquistato e tuk tuk da pagare, sono rimasto con venti dollari interi e, con un pò di vergogna, cerco di balbettare che glieli spedirò dall’Italia. Lui, con una semplicità disarmante e anche un pizzico di compassione, mi rassicura che non è un problema e mi dice che potrò contattare l’amico bolognese.

La strada del rientro sembra non finire mai ma mi perdo a guardare le persone che a mano stanno scavando un canale di irrigazione proprio davanti alla propria casa/palafitta/baracca, cercando di unirsi gli uni agli altri fino ad arrivare al fiume Sangker. E’ incredibile come certe cose che per noi sono scontate, ricevere l’acqua per lavarsi o da sprecare per bagnare il giardino, sia una conquista da ottenere con il sudore della fronte, scavando a mani nude o con l’aiuto di una zappa, in giorni e giorni di duro lavoro sotto il sole cocente.

In hotel ci hanno cambiato la stanza e questa è una suite in confronto a quella in stile “Kampuchea Democratica” di ieri notte: abbiamo finalmente un armadio, due poltrone di legno con un tavolino con tanto di pianta e due orchidee posate sopra, un letto matrimoniale con la testata intarsiata e uno split dell’aria condizionata moderno e silenzioso.
Facciamo un giro per Battambang e ci fermiamo a pranzare al Gecko Cafè che ha una bella terrazza ad angolo su Street 2, in un tradizionale edificio coloniale a due piani: non male e abbondante la focaccia al rosmarino con olio e aceto balsamico, ogni tanto c’è bisogno di un ritorno alle origini almeno per il palato.

La cena è un terno al lotto, cerchiamo e ricerchiamo facendoci scorrazzare su e giù per l’East Bank (la sponda orientale del fiume) un locale riportato da una guida del posto e da Trip Advisor, il “Cold Beer Restaurant”, famoso per la birra ghiacciata e la pizza rivisitata alla Cambogiana. Ci infiliamo in un ristorante cambogiano che fa la pizza dove mangiamo sotto una tettoia di legno dove ciascun tavolo è separato dagli altri da pareti di bambù. Si mangia con i tavolini bassi e seduti per terra su dei cuscini. La pizza è un mattone, almeno quella che mangio io, la “Pepperoni” con una massa bianca di formaggio spessa mezzo centimetro, aglio, salamino piccante, peperoni e peperoncino. Rimane in pancia giusto il tempo di arrivare a casa con la moto, poi i crampi mi prendono l’intestino.

venerdì 24 dicembre 2010

Phnom Penh

23 dicembre 2010

Lasciamo Milano con una pioggia gelida, un netto miglioramento rispetto alla neve che è caduta in tutta Europa fino a due giorni prima, e dopo nemmeno 4 ore di volo atterriamo al Cairo, per la prima volta in Egitto.
Riconosco il Nilo come una striscia nera tratteggiata ai bordi da un’interminabile fila di luci gialle.
L’aereroporto del Cairo è molto dimesso, qualche decina di negozi senza nemmeno troppe pretese con il tipico vociare dei Paesi nordafricani.
Atterrare a Bangkok è come tornare a casa, qualcosa mi è entrato sotto la pelle da ormai 6 anni e non c’è Cina, Mongolia, Giappone o Paese Europeo che mi dia le stesse sensazioni del Sud-Est Asiatico.
Non mi ricordavo un aereoporto così grande, uno scheletro d’acciaio tentacolare ricoperto di vetri, il cui midollo spinale sono centinaia di negozi sfavillanti di luci e di profumi, brulicanti di commesse sorridenti che ti accolgono con le mani giunte e un “sabadì” che se non fosse di pura convenienza sembrerebbe quasi sincero.
Il tempo sembra essersi fermato, non sembra quasi di sentire rumori, solo sensazioni ed emozioni che mi catapultano indietro di 5 anni, tanto è passato dall’ultima volta che sono stato in questa regione del mondo.
Tuttavia, cinque anni che sembrano venti: non più un turbo elica che ci portò in Cambogia un anno e in Myanmar l’anno successivo ma un aereo in stile Ryanair, arriva-scarica-carica e via in mezz’ora al massimo; non più un telefonino GSM con lo schermo a una riga ma l’I-Phone che ha tutto il tuo mondo in tasca; non più un’unica email con tanti indirizzi in copia nascosta ma Facebook; non più l’emozione di respirare l’aria di un Paese nuovo e vedere la scritta dell’aereoporto di arrivo dalla scaletta, ma un asettico finger che ti estrae dalla pancia dell’aereo per buttarti nel mezzo dello shopping.
Atterriamo a Phnom Penh Pochetong alle 16.40, quasi mezz’ora di ritardo, nell’epoca dei viaggi aerei di massa c’è da stupirsi quando l’aereo è puntuale al decollo, ormai è quasi una prassi che l’imbarco inizi quando, teoricamente, l’aereo dovrebbe decollare.
Ti colpiscono subito l’aria calda che filtra attraverso il finger ma, ancora di più, i sorrisi dei funzionari della dogana, cosa cui non siamo più abituati in Italia, mentre sbrighiamo le pratiche per il visto: la Cambogia è uno di quegli strani Paesi in cui per entrare hai bisogno del visto, cosa che sosterrebbe una più cauta analisi del tuo percorso privato e/o pubblico, salvo poi rilasciartelo in due-minuti-due dietro al pagamento di 20 dollari.
Il traffico dall’aereoporto all’hotel è quanto di più caotico si possa incontrare dal momento che ciascuno pensa di avere il diritto di precedenza ai semafori, incroci e passi carrali.
La fascia oraria tra le 17 e le 18 coincide con l’uscita dagli uffici ministeriali e dalle università che si trovano lungo la strada tra l’aereoporto e il centro di Phnom Penh.



Vedere Phnom Penh con le luci tipiche del nostro mese di giugno la tinge di colori vivaci, tutt’altro che quelli resi lucidi dalla pioggia della stagione estiva, l’aria è diversa, priva degli odori rancidi dell’umidità.
Pian piano arriviamo in hotel, l’hotel Cara che si trova a nord del Wat Phnom, un piccolo hotel recente e pulito, con il solito, immancabile geco sulla parete della camera da letto.
Tornare sul lungofiume è emozionante, il chilometro scarso che percorriamo con il tuk-tuk mi butta addosso un oceano di emozioni e ricordi che in questi sei anni si sono accumulati e potenziati, come quando le aspettative su un luogo o una persona si ingigantiscono sulla base di piccoli ricordi positivi o negativi. In questo caso, le esperienze positive del mio breve soggiorno a Phnom Penh, che mi avevano lasciato con una grande nostalgia, sono pian piano confermate mentre ci avviciniamo al lungo fiume.
I bar e ristoranti sembrano essersi dati una mano di modernità, le strade più pulite nonostante il traffico di motorini Honda, di SUV Toyota e pick-up Ford.
Ci sono sempre la schiera di bambini di strada che chiedono la carità o fanno la posta ai tavoli degli stranieri, in attesa che si alzino per finire con voracità gli avanzi dei piatti; storpi sulla sedia a rotelle, chi mutilato dalle mine chi dall’agente Orange, trasportati dal fratello minore o dal figlio come trofeo da esibire per un dollaro in più.
I ristoranti dove avevo mangiato anni fa sono spariti, o io non riesco a ritrovarli, anche se tutto torna nella memoria spaziale che mi ero fatto del lungofiume. Il Tonle Sap scorre placido, sembra quasi un mare, diverso dal fiume tempestoso di fine luglio, nero con riflessi argento grazie alla luna piena. Non ricorsavo che sulla sponda orientale ci fossero i cartelloni illuminati delle insegne pubblicitarie e i palazzi illuminati, palazzi di uffici, i primi timidi grattacieli di Phnom Penh, se così si possono chiamare edifici di dieci o venti piani al massimo con le insegne luminose sul tetto.




24 dicembre 2010

Non ci sono sveglie a Phnom Penh, come del resto in Vietnam o Thailandia o qualunque altra città da queste parti, appena il cielo nero si rischiara inizia il lavoro per strada e il traffico che terminerà solo a notte inoltrata, per un breve periodo di riposo. Ti addormenti con il karaoke a tutto volume e ti risvegli con il clangore metallico di qualcosa che cade dalle mani o dai carretti motorizzati.

Il vecchio liceo Tuol Sleng, carcere S-21 durante il regime dei Khmer Rossi, ha un impatto emotivo che per me è secondo solo a Hiroshima.
Le strade polverose che conducevano al museo ormai sono pavimentate e pulite, tutta Phnom Penh sembra aver fatto un balzo in avanti di dieci anni, non c’è più una strada sterrata e sembra quasi (quasi) che non ci sia pattumiera per strada. I mercati quasi (quasi) asettici e senza odori (quasi): magari non una Tigre Asiatica ma, sicuramente, molto meglio di tanti nostri paesi del Meridione o del Centro Italia in quanto a ordine e pulizia.
E’ rimasto tutto uguale tranne che per le dimensioni che in questi sei anni si erano ristrette, ora sembra tutto così grande, anche i crimini commessi.



Il resto della mattinata è dedicato ai mercati.



Quello a sud del Tuol Sleng, Psar Tuol Tom Pong, è un affollato e caotico ma incredibilmente pulito mercato coperto che vende di tutto, dal cibo alle magliette di Abercrombie, Lacoste con il coccodrillo senza le zampe, motori e parti di motorini, anticaglie finte e simili.



A nord il famosissimo Psar Thmei, quello con la gigantesca cupola gialla bordata di bianco e i tentacoli che si estendono alla base, ormai stipati di bancarelle con i tetti di tela.



Desolante!
Solo una parola per descrivere la stazione dei treni di Phnom Penh e, penso, lo stato delle ferrovie cambogiane. L’edificio bianco con le torrette bordate di azzurro è chiuso dalle saracinesche, l’interno è presidiato inspiegabilmente da due guardie che si avvicinano alle sbarre quando vedono che scruto all’interno dicendomi “no open”.
Si vedono i binari pitturati di bianco da poco ma vuoti, eccezion fatta per un convoglio merci giallo. La biglietteria riporta degli orari di apertura che sono in evidente contrasto con la situazione reale, sembra tutto abbandonato ma in ordine, pulito.
L’ambasciata americana, quella davanti la quale ero stato fermato e circondato perché avevo filmata da un tuk-tuk non è più in centro ma è stata spostata ai piedi del Wat Phnom, accanto a Monivong Boulevard, dove hanno sede le università tra cui la Facoltà di Odontostomatologia e di Medicina.
Il Wat Phnom, è la pagoda più “alta” essendo situata nel punto più alto di Phnom Penh, alla quota di ben 28 metri, è una delle contraddizioni (o testimonia l’assenza di falsi moralismi?) asiatiche in quanto è un luogo religioso circondato alla base da centri massaggi, che di massaggi salutistici hanno ben poco.
Solo una parola per descrivere la stazione dei treni di Phnom Penh e, penso, lo stato delle ferrovie cambogiane. L’edificio bianco con le torrette bordate di azzurro è chiuso dalle saracinesche, l’interno è presidiato inspiegabilmente da due guardie che si avvicinano alle sbarre quando vedono che scruto all’interno dicendomi “no open”.
Si vedono i binari pitturati di bianco da poco ma vuoti, eccezion fatta per un convoglio merci giallo. La biglietteria riporta degli orari di apertura che sono in evidente contrasto con la situazione reale, sembra tutto abbandonato ma in ordine, pulito.
L’ambasciata americana, quella davanti la quale ero stato fermato e circondato perché avevo filmata da un tuk-tuk non è più in centro ma è stata spostata ai piedi del Wat Phnom, accanto a Monivong Boulevard, dove hanno sede le università tra cui la Facoltà di Odontostomatologia e di Medicina.
Il Wat Phnom, è la pagoda più “alta” essendo situata nel punto più alto di Phnom Penh, alla quota di ben 28 metri, è una delle contraddizioni (o testimonia l’assenza di falsi moralismi?) asiatiche in quanto è un luogo religioso circondato alla base da centri massaggi, che di massaggi salutistici hanno ben poco: un pò come mettere una casa di appuntamenti dietro il colonnato del Bernini in piazza San Pietro,



L’happy hour a Phnom Penh è molto redditizio per chi lo consuma dal momento che dalle 18 alle 20 la conaumazione è scontata del 50%. Ci sediamo al Fish Bar e dopo 4 medie ci alziamo abbastanza provati per soli 4 dollari, meno di 1 euro per oni birra media.
Basta attraversare la strada ed entriamo al ristorante, il Titanic Restaurant, un mega locale lungo il fiume Tonle Sap con tanto di orchestra khmer che, a dispetto della quantità di cambogiani seduti ai tavoli, offre piatti davvero superbi per la media del posti. Spendiamo circa 10 dollari a testa per mangiare pesce tutto di ottima qualità.
Peccato per le zanzare che mi divorano per tutta la durata della cena:.
Torniamo in hotel da una strada secondaria che, sebbene piena di luce e di persone che stanno guardano un film in un monitor montato per l’occasione, è assolutamente sicura... o almeno questa è la mia intenzione.




25.12.2010

Buon Natale anche se tutto sembra tranne che Natale, saranno i 30 gradi e più, il sole cocente o il fatto di non essere in famiglia per la prima volta in 37 anni.
Ma non mi dispiace affatto di essere dove sono, proprio no, se non per il pranzo di Natale che qui abbiamo sostituito con dei noodle fritti e frutta esotica.
La corsa che mi ero ripromesso di fare a Phnom Penh si è rivelata una figata, vedere certe zone della città che si svegliano e si mettono a lavorare, anche solo di sfuggita quanto è il tempo che lo sguardo si posa mentre corri.
Ci sono centinaia di persone in coda con i regali da donare ai matrimoni perché forse sposarsi il giorno di Natale è di buon auspicio, bambini che vanno a scuola, un traffico caotico già di prima mattina che ti taglia il fiato, insieme al caldo opprimente. Però la luce che si posa sui palazzi è quella ideale in quanto guardano a est, verso i fiumi, dove nasce il sole.

Proprio di fronte al Tonle Sap si affacciano i tre palazzi più belli di Phnom Penh: il Palazzo Reale, il Museo Nazionale e il Wat Ounalom.
Il Palazzo Reale è molto simile a quello di Bangkok tranne che per la maggior semplicità, una minor opulenza (direi anche meno kitch per certi aspetti) rispetto a quello della capitale thailandese, forse a causa delle distruzioni operate dai Khmer Rossi che hanno risparmiato (in parte) solo la Pagoda d’Argento. Fa un caldo feroce, la visitiamo a inizio pomeriggio in quanto avrebbero voluto estorcerci 3 dollari per una maglietta di cotone bianca da mettere addosso in quanto non si può entrare con le spalle scoperte (quando in giro trovi magliette ricamate a 1 dollaro), quindi si torna in hotel a prendere una felpa, con il caldo che fa. ma il bicchiere è sempre mezzo pieno dal momento che il tuk tuk è guidato da un cambogiano cicciottello di una ventina d’anni che questa sera ci scarrozzerà per Phnom Penh alla ricerca di un ristorante Khmer che non sia uno di quelli sul lungofiume.
La folla all’interno del Palazzo Reale non è nemmeno così drammatica grazie anche agli spazi aperti e ampi.
Cazzo però l’ingresso a 6 dollari e mezzo (quando la LP lo riporta a 3 dollari) è proprio un pò fuori dagli standard cambogiani.



Accanto al Palazzo Reale c’è il Museo Nazionale, un’altra perla del Paese, la raccolta più importante di sculture e oggetti d’arte dal periodo pre-Angkoriano al post-Ankoriano, sicuramente una parte infinitesima rispetto a quanto è stato razziato dai Francesi prima e distrutto dalla guerra civile poi: non ci si deve aspettare un posto enorme, modello Louvre, ma è un bel posto dove passare un’oretta a lucidarsi gli occhi tra le statue di 700-800 anni fa.
Una perla di Phnom Penh, almeno per me, ma che non è riportata da nessuna guida è un palazzo coloniale situato proprio di fronte al Museo Nazionale, dei primi del Novecento ma completamente abbandonato e diroccato. Si può accedere liberamente ma dentro sembra di essere in un palazzo bombardato, senza più finestre né porte, senza arredamento se non per alcune sedie accatastate in qualche stanza, un’asse al pian terreno utilizzata per dormire da qualche poveraccio di strada. Potrebbe essere il luogo ideale per ricavarne un hotel di lusso, un boutique hotel o semplicemente la sede di un’ambasciata ma è inspiegabile come sia l’unica costruzione della città ridotta in queste condizioni.



Attorno a questa zona brancolano in cerca di una speranza bambini di strada, accattoni, storpi senza gambe e mezzi storpi che appoggiano la chiappa senza gamba alla carrozzina e la usano come stampella con le ruote, un Elephant Man che vedi solo sui testi di anatomia e che ti piazza davanti tutta la sua dannazione (non ha nemmeno la “fortuna” di essere solo povero, è anche devastato fisicamente, solo in tutti i sensi), ragazze-mamme con il seno di fuori ad allattare neonati impolverati.
Infine il Wat Ounalom, il più importante e grande monastero buddhista cambogiano anche se di monaci ne vediamo non più di 3-4, di cui uno che, dopo averci chiesto da dove venivamo e informato delle pessime condizioni metereologiche in Europa (!!), ci parla come un imbonitore televisivo americano della bontà della meditazione buddhista, che cura il corpo (non sempre) ma anche la mente (sempre): insomma non pensare di venire a guarire dai malanni fisici ma una mano a sopportarli te la diamo. E poi mi chiede se in Italia siamo Cristiani o Musulmani...



Infine il lungofiume è forse una delle parti più belle di Phnom Penh, soprattutto il punto dove si unisce il Tonle Sap con il Mekong e il Tonle Bassac. E’ molto trafficato come sempre, tra chiatte e barche di pescatori sputacchianti fumo, navi come quelle che si possono trovare nello Yangtze e gli immancabili traghetti per turisti. Dei pescatori stanno lanciando l’amo nell’acqua scura ma non marrone come nella stagione delle piogge, la corrente è “nel verso giusto”, non dal Mekong al lago Tonle Sap ma verso il mare.




A dimostrazione dell’inaffidabilità della popolazione di queste zone, aspettiamo dieci minuti il ragazzo del tuk-tuk fuori dall’albergo ma, come ci dirà domani, “I was busy”, probabilmente ha avuto altre corse e se ne è fottuto dell’impegno.
Niente di male, proprio di fronte all’hotel Cara c’è un ristorante sulla strada dove cucinano un intero vitello. A giudicare dal fatto che questa mattina lo stavano preparando e mettendo sullo spiedo tutto intero e che ora è quasi terminato, si mangia bene. Inoltre i tavolini sono quasi tutti pieni e gruppi di uomini cambogiani stanno letterlamente prosciugando le scorte di birra Angkor, sono tutti ubriachi. Qualche ragazza li accompagna e di tanto in tanto si becca una bella e sonora manata sul culo.
Sono tentato dal provare i ragni fritti, delle bestie grandi come un pacchetto di sigarette da dieci ma qualcosa mi ferma, vedrò se avrò il coraggio nei prossimi giorni, sicuramente non devono essere male dal momento che quasi tutti i tavoli li comprano, soprattutto i maschi mentre le donne sono un pò più riluttanti.


23 dicembre 2010

26 dicembre 2010

Il karaoke accanto è quanto di più molesto si possa avere, soprattutto se ti svegli alle 3 del mattino perché sei andato a letto troppo presto la sera prima. Si sente un rumore di bassi incredibile, vibra la parete del letto nonostante sia nell’edificio accanto.
Questa mattina il tuk tuk boy non si fa sfuggire l’occasione di guadagnarsi 15 dollari, ci viene incontro sorridente dall’altra parte della strada e, senza nemmeno scusarsi, ci dice che ieri sera ha avuto da lavorare.
La strada per il killing field di Choeung Ek è lunga, trafficata e polverosa e ben presto l’ordine apparente e la pulizia di Phnom Penh lasciano il posto a strade da cui si alzano turbini di sabbia, colonne di camion che sputano un fumo nero e un caos di motorini, biciclette e gente che lavora invadendo per dei buoni metri la carreggiata.
Il killing field, un tempo cimitero cinese, è ormai circondato da qualche fabbrica che pian piano sta sostituendo le risaie come fonte di reddito più facile. E’ un luogo quasi irreale, quasi non verrebbe da crederci che in questo posto sono stati barbaramente uccise oltre diecimila persone trasportate dal carcere S-21. Uno stupa all’ingresso, alto una trentina di metri, raccoglie al suo interno i teschi delle oltre ottomila persone trucidate, anche se più della metà delle fosse comuni ancora non sono state scavate. Ancora con più metodicità rispetto alla lucida follia dei khmer rossi, ogni singolo teschio è stato analizzato da un gruppo di medici forensi che hanno catalogato il tipo di morte, se per colpo di ascia, di punteruolo, se perché il cranio è stato fracassato contro l’albero, come accadeva per i bambini.



Sulla strada per il ritorno ci fermiamo in un “orfanotrofio”, almeno così è chiamata una costruzione dove una quindicina di ragazze si prendono cura di ottanta e più bambini, da pochi mesi di età ai 18 anni, tutti abbandonati per strada o nei templi, oppure orfani e recuperati dalla strada. Le stesse ragazze sono state loro stesse abbandonate e hanno deciso di dedicare la loro vita a dare un senso a quella di questi bambini, insegnando loro Inglese, danza o, semplicemente, una vita normale.
Portiamo due sacchi da cinquanta chili di riso che carichiamo sul tuk tuk con i quali andranno avanti un paio di giorni.
Ai bambini non sembra vero di stare con delle persone nuove, corrono e saltano da tutte le parti, ti prendono per mano, mentre i più grandi hanno un fare più distaccato, orgoglioso come se a manifestare i sentimenti ci fosse un qualche cosa di sconveniente.



L’ambasciata francese non ha nulla a che vedere con quella del film “Urla del Silenzio”, ora c’è un alto muro bianco coperto di fotografie di una interessante mostra di un Francese che ha per oggetto la capitale.
Pian piano arriviamo al mercato Psar O Russei, un claustrofobico ammasso di centinaia di bancarelle al coperto, su tre piani bassissimi, i corridoi larghi a dir tanto un metro. Come se non bastasse, è circondato da palazzi su tutti e quattro i lati, alti, con le inferriate alle finestre, le strade invase di bancarelle, tuk tuk, questuanti, motorini parcheggiati. Insomma, una concentrazione di vita umana come non se ne vedono se non nei fumetti o nei film di fantascenza, alla Blade Runner.