MOMA

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venerdì 24 dicembre 2010

Phnom Penh

23 dicembre 2010

Lasciamo Milano con una pioggia gelida, un netto miglioramento rispetto alla neve che è caduta in tutta Europa fino a due giorni prima, e dopo nemmeno 4 ore di volo atterriamo al Cairo, per la prima volta in Egitto.
Riconosco il Nilo come una striscia nera tratteggiata ai bordi da un’interminabile fila di luci gialle.
L’aereroporto del Cairo è molto dimesso, qualche decina di negozi senza nemmeno troppe pretese con il tipico vociare dei Paesi nordafricani.
Atterrare a Bangkok è come tornare a casa, qualcosa mi è entrato sotto la pelle da ormai 6 anni e non c’è Cina, Mongolia, Giappone o Paese Europeo che mi dia le stesse sensazioni del Sud-Est Asiatico.
Non mi ricordavo un aereoporto così grande, uno scheletro d’acciaio tentacolare ricoperto di vetri, il cui midollo spinale sono centinaia di negozi sfavillanti di luci e di profumi, brulicanti di commesse sorridenti che ti accolgono con le mani giunte e un “sabadì” che se non fosse di pura convenienza sembrerebbe quasi sincero.
Il tempo sembra essersi fermato, non sembra quasi di sentire rumori, solo sensazioni ed emozioni che mi catapultano indietro di 5 anni, tanto è passato dall’ultima volta che sono stato in questa regione del mondo.
Tuttavia, cinque anni che sembrano venti: non più un turbo elica che ci portò in Cambogia un anno e in Myanmar l’anno successivo ma un aereo in stile Ryanair, arriva-scarica-carica e via in mezz’ora al massimo; non più un telefonino GSM con lo schermo a una riga ma l’I-Phone che ha tutto il tuo mondo in tasca; non più un’unica email con tanti indirizzi in copia nascosta ma Facebook; non più l’emozione di respirare l’aria di un Paese nuovo e vedere la scritta dell’aereoporto di arrivo dalla scaletta, ma un asettico finger che ti estrae dalla pancia dell’aereo per buttarti nel mezzo dello shopping.
Atterriamo a Phnom Penh Pochetong alle 16.40, quasi mezz’ora di ritardo, nell’epoca dei viaggi aerei di massa c’è da stupirsi quando l’aereo è puntuale al decollo, ormai è quasi una prassi che l’imbarco inizi quando, teoricamente, l’aereo dovrebbe decollare.
Ti colpiscono subito l’aria calda che filtra attraverso il finger ma, ancora di più, i sorrisi dei funzionari della dogana, cosa cui non siamo più abituati in Italia, mentre sbrighiamo le pratiche per il visto: la Cambogia è uno di quegli strani Paesi in cui per entrare hai bisogno del visto, cosa che sosterrebbe una più cauta analisi del tuo percorso privato e/o pubblico, salvo poi rilasciartelo in due-minuti-due dietro al pagamento di 20 dollari.
Il traffico dall’aereoporto all’hotel è quanto di più caotico si possa incontrare dal momento che ciascuno pensa di avere il diritto di precedenza ai semafori, incroci e passi carrali.
La fascia oraria tra le 17 e le 18 coincide con l’uscita dagli uffici ministeriali e dalle università che si trovano lungo la strada tra l’aereoporto e il centro di Phnom Penh.



Vedere Phnom Penh con le luci tipiche del nostro mese di giugno la tinge di colori vivaci, tutt’altro che quelli resi lucidi dalla pioggia della stagione estiva, l’aria è diversa, priva degli odori rancidi dell’umidità.
Pian piano arriviamo in hotel, l’hotel Cara che si trova a nord del Wat Phnom, un piccolo hotel recente e pulito, con il solito, immancabile geco sulla parete della camera da letto.
Tornare sul lungofiume è emozionante, il chilometro scarso che percorriamo con il tuk-tuk mi butta addosso un oceano di emozioni e ricordi che in questi sei anni si sono accumulati e potenziati, come quando le aspettative su un luogo o una persona si ingigantiscono sulla base di piccoli ricordi positivi o negativi. In questo caso, le esperienze positive del mio breve soggiorno a Phnom Penh, che mi avevano lasciato con una grande nostalgia, sono pian piano confermate mentre ci avviciniamo al lungo fiume.
I bar e ristoranti sembrano essersi dati una mano di modernità, le strade più pulite nonostante il traffico di motorini Honda, di SUV Toyota e pick-up Ford.
Ci sono sempre la schiera di bambini di strada che chiedono la carità o fanno la posta ai tavoli degli stranieri, in attesa che si alzino per finire con voracità gli avanzi dei piatti; storpi sulla sedia a rotelle, chi mutilato dalle mine chi dall’agente Orange, trasportati dal fratello minore o dal figlio come trofeo da esibire per un dollaro in più.
I ristoranti dove avevo mangiato anni fa sono spariti, o io non riesco a ritrovarli, anche se tutto torna nella memoria spaziale che mi ero fatto del lungofiume. Il Tonle Sap scorre placido, sembra quasi un mare, diverso dal fiume tempestoso di fine luglio, nero con riflessi argento grazie alla luna piena. Non ricorsavo che sulla sponda orientale ci fossero i cartelloni illuminati delle insegne pubblicitarie e i palazzi illuminati, palazzi di uffici, i primi timidi grattacieli di Phnom Penh, se così si possono chiamare edifici di dieci o venti piani al massimo con le insegne luminose sul tetto.




24 dicembre 2010

Non ci sono sveglie a Phnom Penh, come del resto in Vietnam o Thailandia o qualunque altra città da queste parti, appena il cielo nero si rischiara inizia il lavoro per strada e il traffico che terminerà solo a notte inoltrata, per un breve periodo di riposo. Ti addormenti con il karaoke a tutto volume e ti risvegli con il clangore metallico di qualcosa che cade dalle mani o dai carretti motorizzati.

Il vecchio liceo Tuol Sleng, carcere S-21 durante il regime dei Khmer Rossi, ha un impatto emotivo che per me è secondo solo a Hiroshima.
Le strade polverose che conducevano al museo ormai sono pavimentate e pulite, tutta Phnom Penh sembra aver fatto un balzo in avanti di dieci anni, non c’è più una strada sterrata e sembra quasi (quasi) che non ci sia pattumiera per strada. I mercati quasi (quasi) asettici e senza odori (quasi): magari non una Tigre Asiatica ma, sicuramente, molto meglio di tanti nostri paesi del Meridione o del Centro Italia in quanto a ordine e pulizia.
E’ rimasto tutto uguale tranne che per le dimensioni che in questi sei anni si erano ristrette, ora sembra tutto così grande, anche i crimini commessi.



Il resto della mattinata è dedicato ai mercati.



Quello a sud del Tuol Sleng, Psar Tuol Tom Pong, è un affollato e caotico ma incredibilmente pulito mercato coperto che vende di tutto, dal cibo alle magliette di Abercrombie, Lacoste con il coccodrillo senza le zampe, motori e parti di motorini, anticaglie finte e simili.



A nord il famosissimo Psar Thmei, quello con la gigantesca cupola gialla bordata di bianco e i tentacoli che si estendono alla base, ormai stipati di bancarelle con i tetti di tela.



Desolante!
Solo una parola per descrivere la stazione dei treni di Phnom Penh e, penso, lo stato delle ferrovie cambogiane. L’edificio bianco con le torrette bordate di azzurro è chiuso dalle saracinesche, l’interno è presidiato inspiegabilmente da due guardie che si avvicinano alle sbarre quando vedono che scruto all’interno dicendomi “no open”.
Si vedono i binari pitturati di bianco da poco ma vuoti, eccezion fatta per un convoglio merci giallo. La biglietteria riporta degli orari di apertura che sono in evidente contrasto con la situazione reale, sembra tutto abbandonato ma in ordine, pulito.
L’ambasciata americana, quella davanti la quale ero stato fermato e circondato perché avevo filmata da un tuk-tuk non è più in centro ma è stata spostata ai piedi del Wat Phnom, accanto a Monivong Boulevard, dove hanno sede le università tra cui la Facoltà di Odontostomatologia e di Medicina.
Il Wat Phnom, è la pagoda più “alta” essendo situata nel punto più alto di Phnom Penh, alla quota di ben 28 metri, è una delle contraddizioni (o testimonia l’assenza di falsi moralismi?) asiatiche in quanto è un luogo religioso circondato alla base da centri massaggi, che di massaggi salutistici hanno ben poco.
Solo una parola per descrivere la stazione dei treni di Phnom Penh e, penso, lo stato delle ferrovie cambogiane. L’edificio bianco con le torrette bordate di azzurro è chiuso dalle saracinesche, l’interno è presidiato inspiegabilmente da due guardie che si avvicinano alle sbarre quando vedono che scruto all’interno dicendomi “no open”.
Si vedono i binari pitturati di bianco da poco ma vuoti, eccezion fatta per un convoglio merci giallo. La biglietteria riporta degli orari di apertura che sono in evidente contrasto con la situazione reale, sembra tutto abbandonato ma in ordine, pulito.
L’ambasciata americana, quella davanti la quale ero stato fermato e circondato perché avevo filmata da un tuk-tuk non è più in centro ma è stata spostata ai piedi del Wat Phnom, accanto a Monivong Boulevard, dove hanno sede le università tra cui la Facoltà di Odontostomatologia e di Medicina.
Il Wat Phnom, è la pagoda più “alta” essendo situata nel punto più alto di Phnom Penh, alla quota di ben 28 metri, è una delle contraddizioni (o testimonia l’assenza di falsi moralismi?) asiatiche in quanto è un luogo religioso circondato alla base da centri massaggi, che di massaggi salutistici hanno ben poco: un pò come mettere una casa di appuntamenti dietro il colonnato del Bernini in piazza San Pietro,



L’happy hour a Phnom Penh è molto redditizio per chi lo consuma dal momento che dalle 18 alle 20 la conaumazione è scontata del 50%. Ci sediamo al Fish Bar e dopo 4 medie ci alziamo abbastanza provati per soli 4 dollari, meno di 1 euro per oni birra media.
Basta attraversare la strada ed entriamo al ristorante, il Titanic Restaurant, un mega locale lungo il fiume Tonle Sap con tanto di orchestra khmer che, a dispetto della quantità di cambogiani seduti ai tavoli, offre piatti davvero superbi per la media del posti. Spendiamo circa 10 dollari a testa per mangiare pesce tutto di ottima qualità.
Peccato per le zanzare che mi divorano per tutta la durata della cena:.
Torniamo in hotel da una strada secondaria che, sebbene piena di luce e di persone che stanno guardano un film in un monitor montato per l’occasione, è assolutamente sicura... o almeno questa è la mia intenzione.




25.12.2010

Buon Natale anche se tutto sembra tranne che Natale, saranno i 30 gradi e più, il sole cocente o il fatto di non essere in famiglia per la prima volta in 37 anni.
Ma non mi dispiace affatto di essere dove sono, proprio no, se non per il pranzo di Natale che qui abbiamo sostituito con dei noodle fritti e frutta esotica.
La corsa che mi ero ripromesso di fare a Phnom Penh si è rivelata una figata, vedere certe zone della città che si svegliano e si mettono a lavorare, anche solo di sfuggita quanto è il tempo che lo sguardo si posa mentre corri.
Ci sono centinaia di persone in coda con i regali da donare ai matrimoni perché forse sposarsi il giorno di Natale è di buon auspicio, bambini che vanno a scuola, un traffico caotico già di prima mattina che ti taglia il fiato, insieme al caldo opprimente. Però la luce che si posa sui palazzi è quella ideale in quanto guardano a est, verso i fiumi, dove nasce il sole.

Proprio di fronte al Tonle Sap si affacciano i tre palazzi più belli di Phnom Penh: il Palazzo Reale, il Museo Nazionale e il Wat Ounalom.
Il Palazzo Reale è molto simile a quello di Bangkok tranne che per la maggior semplicità, una minor opulenza (direi anche meno kitch per certi aspetti) rispetto a quello della capitale thailandese, forse a causa delle distruzioni operate dai Khmer Rossi che hanno risparmiato (in parte) solo la Pagoda d’Argento. Fa un caldo feroce, la visitiamo a inizio pomeriggio in quanto avrebbero voluto estorcerci 3 dollari per una maglietta di cotone bianca da mettere addosso in quanto non si può entrare con le spalle scoperte (quando in giro trovi magliette ricamate a 1 dollaro), quindi si torna in hotel a prendere una felpa, con il caldo che fa. ma il bicchiere è sempre mezzo pieno dal momento che il tuk tuk è guidato da un cambogiano cicciottello di una ventina d’anni che questa sera ci scarrozzerà per Phnom Penh alla ricerca di un ristorante Khmer che non sia uno di quelli sul lungofiume.
La folla all’interno del Palazzo Reale non è nemmeno così drammatica grazie anche agli spazi aperti e ampi.
Cazzo però l’ingresso a 6 dollari e mezzo (quando la LP lo riporta a 3 dollari) è proprio un pò fuori dagli standard cambogiani.



Accanto al Palazzo Reale c’è il Museo Nazionale, un’altra perla del Paese, la raccolta più importante di sculture e oggetti d’arte dal periodo pre-Angkoriano al post-Ankoriano, sicuramente una parte infinitesima rispetto a quanto è stato razziato dai Francesi prima e distrutto dalla guerra civile poi: non ci si deve aspettare un posto enorme, modello Louvre, ma è un bel posto dove passare un’oretta a lucidarsi gli occhi tra le statue di 700-800 anni fa.
Una perla di Phnom Penh, almeno per me, ma che non è riportata da nessuna guida è un palazzo coloniale situato proprio di fronte al Museo Nazionale, dei primi del Novecento ma completamente abbandonato e diroccato. Si può accedere liberamente ma dentro sembra di essere in un palazzo bombardato, senza più finestre né porte, senza arredamento se non per alcune sedie accatastate in qualche stanza, un’asse al pian terreno utilizzata per dormire da qualche poveraccio di strada. Potrebbe essere il luogo ideale per ricavarne un hotel di lusso, un boutique hotel o semplicemente la sede di un’ambasciata ma è inspiegabile come sia l’unica costruzione della città ridotta in queste condizioni.



Attorno a questa zona brancolano in cerca di una speranza bambini di strada, accattoni, storpi senza gambe e mezzi storpi che appoggiano la chiappa senza gamba alla carrozzina e la usano come stampella con le ruote, un Elephant Man che vedi solo sui testi di anatomia e che ti piazza davanti tutta la sua dannazione (non ha nemmeno la “fortuna” di essere solo povero, è anche devastato fisicamente, solo in tutti i sensi), ragazze-mamme con il seno di fuori ad allattare neonati impolverati.
Infine il Wat Ounalom, il più importante e grande monastero buddhista cambogiano anche se di monaci ne vediamo non più di 3-4, di cui uno che, dopo averci chiesto da dove venivamo e informato delle pessime condizioni metereologiche in Europa (!!), ci parla come un imbonitore televisivo americano della bontà della meditazione buddhista, che cura il corpo (non sempre) ma anche la mente (sempre): insomma non pensare di venire a guarire dai malanni fisici ma una mano a sopportarli te la diamo. E poi mi chiede se in Italia siamo Cristiani o Musulmani...



Infine il lungofiume è forse una delle parti più belle di Phnom Penh, soprattutto il punto dove si unisce il Tonle Sap con il Mekong e il Tonle Bassac. E’ molto trafficato come sempre, tra chiatte e barche di pescatori sputacchianti fumo, navi come quelle che si possono trovare nello Yangtze e gli immancabili traghetti per turisti. Dei pescatori stanno lanciando l’amo nell’acqua scura ma non marrone come nella stagione delle piogge, la corrente è “nel verso giusto”, non dal Mekong al lago Tonle Sap ma verso il mare.




A dimostrazione dell’inaffidabilità della popolazione di queste zone, aspettiamo dieci minuti il ragazzo del tuk-tuk fuori dall’albergo ma, come ci dirà domani, “I was busy”, probabilmente ha avuto altre corse e se ne è fottuto dell’impegno.
Niente di male, proprio di fronte all’hotel Cara c’è un ristorante sulla strada dove cucinano un intero vitello. A giudicare dal fatto che questa mattina lo stavano preparando e mettendo sullo spiedo tutto intero e che ora è quasi terminato, si mangia bene. Inoltre i tavolini sono quasi tutti pieni e gruppi di uomini cambogiani stanno letterlamente prosciugando le scorte di birra Angkor, sono tutti ubriachi. Qualche ragazza li accompagna e di tanto in tanto si becca una bella e sonora manata sul culo.
Sono tentato dal provare i ragni fritti, delle bestie grandi come un pacchetto di sigarette da dieci ma qualcosa mi ferma, vedrò se avrò il coraggio nei prossimi giorni, sicuramente non devono essere male dal momento che quasi tutti i tavoli li comprano, soprattutto i maschi mentre le donne sono un pò più riluttanti.


23 dicembre 2010

26 dicembre 2010

Il karaoke accanto è quanto di più molesto si possa avere, soprattutto se ti svegli alle 3 del mattino perché sei andato a letto troppo presto la sera prima. Si sente un rumore di bassi incredibile, vibra la parete del letto nonostante sia nell’edificio accanto.
Questa mattina il tuk tuk boy non si fa sfuggire l’occasione di guadagnarsi 15 dollari, ci viene incontro sorridente dall’altra parte della strada e, senza nemmeno scusarsi, ci dice che ieri sera ha avuto da lavorare.
La strada per il killing field di Choeung Ek è lunga, trafficata e polverosa e ben presto l’ordine apparente e la pulizia di Phnom Penh lasciano il posto a strade da cui si alzano turbini di sabbia, colonne di camion che sputano un fumo nero e un caos di motorini, biciclette e gente che lavora invadendo per dei buoni metri la carreggiata.
Il killing field, un tempo cimitero cinese, è ormai circondato da qualche fabbrica che pian piano sta sostituendo le risaie come fonte di reddito più facile. E’ un luogo quasi irreale, quasi non verrebbe da crederci che in questo posto sono stati barbaramente uccise oltre diecimila persone trasportate dal carcere S-21. Uno stupa all’ingresso, alto una trentina di metri, raccoglie al suo interno i teschi delle oltre ottomila persone trucidate, anche se più della metà delle fosse comuni ancora non sono state scavate. Ancora con più metodicità rispetto alla lucida follia dei khmer rossi, ogni singolo teschio è stato analizzato da un gruppo di medici forensi che hanno catalogato il tipo di morte, se per colpo di ascia, di punteruolo, se perché il cranio è stato fracassato contro l’albero, come accadeva per i bambini.



Sulla strada per il ritorno ci fermiamo in un “orfanotrofio”, almeno così è chiamata una costruzione dove una quindicina di ragazze si prendono cura di ottanta e più bambini, da pochi mesi di età ai 18 anni, tutti abbandonati per strada o nei templi, oppure orfani e recuperati dalla strada. Le stesse ragazze sono state loro stesse abbandonate e hanno deciso di dedicare la loro vita a dare un senso a quella di questi bambini, insegnando loro Inglese, danza o, semplicemente, una vita normale.
Portiamo due sacchi da cinquanta chili di riso che carichiamo sul tuk tuk con i quali andranno avanti un paio di giorni.
Ai bambini non sembra vero di stare con delle persone nuove, corrono e saltano da tutte le parti, ti prendono per mano, mentre i più grandi hanno un fare più distaccato, orgoglioso come se a manifestare i sentimenti ci fosse un qualche cosa di sconveniente.



L’ambasciata francese non ha nulla a che vedere con quella del film “Urla del Silenzio”, ora c’è un alto muro bianco coperto di fotografie di una interessante mostra di un Francese che ha per oggetto la capitale.
Pian piano arriviamo al mercato Psar O Russei, un claustrofobico ammasso di centinaia di bancarelle al coperto, su tre piani bassissimi, i corridoi larghi a dir tanto un metro. Come se non bastasse, è circondato da palazzi su tutti e quattro i lati, alti, con le inferriate alle finestre, le strade invase di bancarelle, tuk tuk, questuanti, motorini parcheggiati. Insomma, una concentrazione di vita umana come non se ne vedono se non nei fumetti o nei film di fantascenza, alla Blade Runner.

3 commenti:

Brunella Conca ha detto...

sembra quasi di essere lì.... che fascino....

Niccolò ha detto...

bellissimo.

Denise ha detto...

mi hai fatto ritornare indietro con il tempo.Ci sono stata nel 2002 ed è stato un viaggio bellissimo... a parte dover pagare il rotolo di carta igienica in albergo a Phnom - Penh.. ciao Denise