MOMA

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martedì 28 dicembre 2010

Battambang

27 dicembre 2010

Sveglia presto, alle 6 dopo un’altra nottata accompagnata dal “tunz tunz” del night club vicino all’hotel, per andare a Battambang, la seconda città della Cambogia e una delle più affascinanti.
Gli orari di partenza sono in quanto, l’autobus che dovrebbe partire alle 7.45 lascia un affollatissimo, caotico e brulicante piazzale sul retro del Psar Thmei con venti minuti di ritardo dal momento che la biglietteria ci fa partire quando abbiamo raggiunto un numero sufficiente di persone. Anche uscire da PP non è facile a causa del traffico congestionato del lunedì mattina. Costeggiamo il Tonle Sap per un bel pò e ben presto le bancarelle che vendono qualunque cosa si possa pensare di poter acquistare o anche solo buttare lasciano il posto a campi incolti. I monaci sono per la strada con la ciotola delle offerte, macchie arancioni con la punta gialla dell’ombrello che a gruppi di due o tre al massimo camminano sul bordo della strada fermandosi di tanto in tanto davanti a un esercizio commerciale o a un ristorante: e, senza nemmeno chiedere, ecco che le persone arrivano con le offerte.

La strada per Battambang è tutt’altro che un’autostrada anche se si può considerare l’arteria principale della Cambogia, è un nastro nero di asfalto che taglia la vasta pianura a sud ovest del lago Tonle Sap. Piena di avvallamenti e con una striscia arancione tratteggiata al centro della strada, costringe a uno zig zag tra carretti, motorini, pick-up che trasportano di tutto e altri autobus.
A destra e sinistra campi con palme, due tipi di case: palafitte in legno o le ville a tre piani con il tetto colorato e gli immancabili balconi con le balaustre di metallo lucido cromato, una particolarità della zona.
Numerosi sono i corsi d’acqua che, nonostante l’inizio della stagione secca, mantengono la zona di un verde intenso.
I punti di ristoro lungo il tragitto, quelli dove si fermano gli autobus per far mangiare o solo sgranchire le gambe ai viaggiatori che percorrono il tratto tra Battambang o la frontiera con la Thailandia a Poipet, sono delle capanne e nulla di più, quella più rinomata ha costruito sul retro una palazzina di 4 piani, nuova e lucida, sintomo che questo tipo di affari rende nella campagna cambogiana.
Nessuna coscienza ecologica in questi posti, il retro è un gigantesco cumulo di pattumiera che viene spostata dai cestini tra i tavolini degli avventori ai margini dei campi di riso, dove nessuno la porterà via.

Dopo sei ore e mezzo di autobus dai sedili scomodi, due fermate per mangiare e fare i propri bisogni in vere e proprie latrine, arriviamo a Battambang, una città polverosa lontana decenni, non solo duecento e passa chilometri, da Phnom Penh. Un fiume marrone la attraversa, o meglio, divide la zona centrale e più antica, quella occidentale, da quella nuova orientale.
All’apparenza non è nulla di che se non che ha il fascino di una città di frontiera come potrebbe essere qualunque grande città nella periferia di un Paese lontano: mi vengono in mente la Garni Armena, Yibin o Leshan lungo il corso dello Yangtze, Messina nel Limpopo Sudafricano o Taroudant al di là dell’Atlante marocchino.

Il Royal Hotel non ha nulla di “Reale” ma per 19 euro a camera a notte non si può certo pretendere di dormire in un boutique hotel.
Il tuk tuk ci chiede solo 1 dollaro per portarci dall’arrivo degli autobus (ogni compagnia si ferma in un punto diverso) e non c’è verso né interesse a contrattare dal momento che il resto alle frazioni del dollaro verrebbe dato nella loro valuta, il riel, che continua ad accumularsi nel mio portafogli non avendo quasi modo di spenderlo.
Il Royal Hotel, dunque, già la hall non è invitante, un profondo corridoio buio con tre computer datati sulla sinistra connessi a Internet, una reception che è un banco di vetro alto che quasi nasconde una sonnolente e svogliata ragazza e un taciturno ragazzo che ci parla in francese.
Un paio di tuk tuk man ci circondano mentre facciamo il check-in per proporci le escursioni nei dintorni, “maybe tomorrow” dico per levarmeli di torno.
La stanza, molto grande, è desolante ma a prima vista pulita, a parte qualche macchia sulle lenzuola che personalmente non mi cambiano la vita ma che a una donna possono dar fastidio non ricordandosi che si è in un hotel non classificato di Battambang e non in un quattro stelle, con un bagno in ordine ma oscenamente scarno: lavandino, gabinetto, doccia e specchio di plastica. Non c’è armadio ma uno scheletrico appendiabiti verde metallico con decine di omini di metallo colorato appesi uno sopra l’altro. L’età della stanza, almeno trent’anni se non degli anni Settanta come l’aria condizionata che sembra più il retro di una televisione a tubo catodico o una radio a transistor che uno split tecnologico di adesso.
Ma la chicca di questo hotel è il ristorante sul tetto, il Royal Mini Restaurant (o “rooftop restaurant”) con una vista magnifica a sud della città essendo uno degli edifici più alti della parte vecchia che fa dimenticare il fatto che è ricavato tra panni stesi, docce all’aperto e una cucina come quelle che si trovano agli angoli delle strade. Comunque, è proprio un bel posto, rilassante, “in tema” per il posto in cui ci troviamo, si sposa alla perfezione con la trasandatezza o, meglio, l’essere fuori moda di Battambang: un tavolino di cristallo, un bancone illuminato, una luce soffusa o un pavimento in teak avrebbero stonato come una vetrina di Bulgari a Kabul.
I prezzi sono onesti anche se lo spendere poco è più per mancanza di originalità che per altro: ordiniamo una “baguette with cheese” e mi arriva uno sfilatino di quelli imbustati con un formaggino da spalmare, ma per 1 dollaro non posso pretendere l’alta gastronomia francese.

Ale ha una forte dissenteria quindi me ne esco da solo a esplorare questa città che ancora mi deve conquistare, a dispetto delle lodi che ne tessono sia la Lonely Planet sia Bruno di Torino non riesco a trovare una chiave di lettura se non il contrasto netto e fuori dal tempo con Phnom Penh.
A prima vista ci sono meno mendicanti (ma salteranno fuori verso sera, battendo in lungo e in largo i marciapiedi dei ristoranti), solo dei bambini che si tuffano in una fontana con l’acqua verde, stagnante, tremolante per gli insetti che nuotano in superficie, sguazzando e nuotando come se fossero in piscina.
Le strade asfaltate di Phnom Penh hanno lasciato il posto allo sterrato, soprattutto nelle strade secondaria, quelle disposte orizzontalmente. Le strade verticali prendono, originalmente, i nomi a partire dal fiume Sangker: street 1, 2, 3, ecc. e quelle più piccole, non asfaltate tra una strada e l’altra, hanno il nome 1 1/2, 2 1/2, ecc.
Il mercato centrale, o Psah Nath ricorda nei colori quello di Phnom Penh, questo giallo e come un enorme parallelepipedo sdraiato sul fianco lungo, l’altro come un ragno gigantesco con le zampe che si estendono tra i palazzi. La torre dell’orologio all’estremità est non ha più le lancette, chissà da quanti anni.

Ci godiamo, o almeno io perché Ale ha un’autonomia di poco meno di mezz’ora prima di correre in bagno, il tramonto sui tetti di Battambang e, per associazione di idee o per quei misteriosi processi neuro-chimici del cervello per cui una sensazione ne risveglia, inconsciamente, altre simili e ti fanno venire in mente situazioni apparentemente distanti anni luce, mi viene una voglia incredibile di andare in Marocco, sui tetti di una casa nella Kasbah e osservare lo stesso tramonto sul dedalo di stradine.

A cena, naturalmente, vado solo: Smoking Pot, un bel ristorantino in una traversa di Street 2 1/2 che serve piatti khmer con un buon rapporto qualità/prezzo: noodle fritti con pollo e uovo e pollo all’aglio e pepe, condita dall’ennesima birra Angkor della giornata, per meno di 6 dollari.

28.12.10

Anche la colazione dall’ultimo piano ha il suo perché, soprattutto osservare le file di monaci che dai Wat si dirigono verso il mercato o i ragazzini che giocano a pallavolo in un campo sterrato ricavato tra due condomini, il sole delle otto del mattino è già alto nel cielo, sicuramente molto di più di quello cui siamo abituati noi di questi tempi.
Sono in giro da solo dal momento che Ale ha un’autonomia di poche decine di minuti tra una visita al bagno e l’altra.
Una visita al mercato centrale per comprare una bottiglia d’acqua e due krama, i tradizionali foulard a quadretti bianchi e rossi dei khmer, che vengono direttamente tagliati con le forbici da lunghi rotoli di tessuto, senza fare alcun orlo o bordo. Il tessuto non è cotone ma penso sia una seta vegetale o qualcosa di simile. Un dollaro per ciascun Krama, potrebbe essere tanto, anzi sicuramente lo è, ma qui sono rari gli esercizi che ti vendono qualcosa a meno di un dollaro se vedono che non sei un Orientale.
Contratto con il tuk tuk per l’escursione nella provincia di Battambang dove ci sono dei preziosissimi siti archeologici e storici, testimoni di un antico e glorioso passato quanto di una tragedia immane.
I palazzi coloniali del lungo fiume per cui è famosa Battambang sono rimasti tali e quali alla prima metà del secolo scorso, ormai vecchi e scrostati, il cui colore originario che mi immagino pastello, un colore tenue giallo, rosa, verde o celeste, è stato sostituito dai cartelli pubblicitari dei che hanno invaso il piano terra.

La stazione ferroviaria di Battambang è desolante e sbarrata con i cancelli come quella di Phnom Penh, se non peggio dal momento che non ci sono treni fermi e non penso che ne passino da molti mesi. Il sistema ferroviario cambogiano non è allo sfascio ma semplicemente inesistente, l’unico binario a scartamento ridotto che attraversa il Paese da Phnom Penh a Poipet è ormai invaso dagli erbusti, dalla pattumiera e dalle estensioni sul retro delle case che sono state costruite a ridosso dei binari. Non c’è alcun passaggio a livello, tanto non servirebbe, e chiunque attraversa senza nemmeno dare un’occhiata a destra e sinistra o accennare di rallentare.

La strada dopo pochi chilometri dalla stazione diventa prima una striscia d’asfalto grezzo per poi lasciare spazio a uno sterrato, pieno di buche profonde un palmo che sembrano spezzare a metà il tuk tuk. Una striscia di terra rosso fuoco che contrasta in maniera netta con il verde lussurreggiante della campagna. A metà strada circa tra Battambang e Phnom Banan sorge la prima e unica azienda vinicola della Cambogia, se così si può chiamare una masseria in stile pugliese o siciliano, perché sembra più una casa di campagna del nostro Meridione piuttosto che un’azienda austera sul modello piemontese o con l’opulenza di quelle Sudafricane. Le viti sono piccole, alcune ancora nei vasi ma hanno creato un sistema di irrigazione a goccia assolutamente fondamentale per sostenere il clima torrido e secco di questi mesi dell’anno.
La produzione è di circa 10.000 bottiglie suddivisa tra un Rosso con uvaggio Syrah e Cabernet sauvignon, un Rosè che però è terminato, un Brandy dal sapore dolciastro e uno sciroppo d’uva analcolico.
La proprietaria mi mostra orgogliosa le analisi sanitarie e organolettiche svolte sul vino e la rivista francese “La Vigne” dello scorso giugno dove ci sono due pagine intere sul primo vino cambogiano che, ad essere sinceri, è molto meglio di tanti Cabernet o Merlot che si possono trovare nelle nostre trattorie bergamasche. Il vino che mi fa provare è del 2008 e ha la tipicità, seppure appena accennata, del Syrah e del Cabernet sauvignon, insomma ci si può credere che sia stato fatto con uva. Unico neo il costo, 15 dollari a bottiglia, spropositato considerando la manodopera di qui, un vino simile in Sudafrica non costerebbe più di 10 dollari.

Il Phnom Banan sorge in cima a una collina e vi si accede attraverso una ripida scalinata di oltre 300 gradini. Il tempio ricorda, per forma e disposizione, l’Angkor Wat anche se le dimensioni sono molto più contenute. La vista spazia per chilometri e chilometri a trecentosessanta gradi, una piatta campagna punteggiata di alberi di cocco interrotta, verso ovest, da isolate colline, come escrescenze solitarie.
Una di queste escrescenze è il Phnom Sampeau. Arrivando dal Phnom Banan sembra di vedere il Monte Popa dello Stato Shan birmano in scala ridotta, una collina allungata ma ben definita alla base, punteggiata da un Wat sulla sommità. Capisci che sei arrivato a destinazione, alla base del tempio, perché dal nulla compaiono decine di bancarelle di cibo e sono posteggiati qualche tuk tuk dei rari turisti che arrivano fin qui.
Subito si avvicina la gente del posto che cerca di “venderti” il passaggio in moto per qualche dollaro fino alla sommità della collina, in qualche modo sono anch’io tentato dal momento che fa caldo, il sole cuoce, sono quasi le due del pomeriggio e non mangio da colazione e mi parlano di almeno “one hour” per arrivare in cima. Ma non sarebbe un “pellegrinaggio” se ci arrivassi comodamente come fanno invece tutti, anche perché ci vuole solo un quarto d’ora a passo svelto per una salita ripida, spacca-gambe a quanto dicono giù di sotto, che porta al primo Wat. Nella stessa zona c’è una grotta dove gli Khmer Rossi hanno trucidato oltre quattordicimila Cambogiani, gettando i corpi morti o ancora vivi in un buco nella roccia. Ora nella grotta che raccoglieva i corpi lanciati sorge un piccolo tempio, con un Buddha reclinato di una decina di metri per proteggere questo luogo di dolore.
Un’ultima “arrampicata” di una decina di minuti scarsi e si arriva sulla sommità della collina dove le strutture più alte non sono più i Wat ma le antenne delle radiocomunicazioni, piantate realmente tra un tempio e l’altro. I Wat sono costruiti a picco sulla roccia e alcune delle fondamenta si perdono tra la vegetazione sottostante, tra scalinate diroccate che scendono verso il nulla. Ci sono le immancabili scimmie come sul Monte Popa, anche queste agguerrite e minacciose ma molto più piccole.
Mi avvicina un Monaco chiedendomi da dove venissi e quando gli ho risposto “Italia” mi ha chiesto se ero di Bologna.
“Perché proprio di Bologna?”
“Perché ho un amico” e mi mostra su una rubrica telefonica, di quelle che si tenevano in casa sotto il telefono di bachelite grigia, il nome di questa persona che lo ha aiutato a progettare una scuola per orfani a Battambang. Insieme al suo nome quello di altre decine di persone da tutto il mondo con, riportato accanto all’indirizzo email, l’importo donato. Io, tra offerte ai vari templi, ingresso agli Phnom, vino acquistato e tuk tuk da pagare, sono rimasto con venti dollari interi e, con un pò di vergogna, cerco di balbettare che glieli spedirò dall’Italia. Lui, con una semplicità disarmante e anche un pizzico di compassione, mi rassicura che non è un problema e mi dice che potrò contattare l’amico bolognese.

La strada del rientro sembra non finire mai ma mi perdo a guardare le persone che a mano stanno scavando un canale di irrigazione proprio davanti alla propria casa/palafitta/baracca, cercando di unirsi gli uni agli altri fino ad arrivare al fiume Sangker. E’ incredibile come certe cose che per noi sono scontate, ricevere l’acqua per lavarsi o da sprecare per bagnare il giardino, sia una conquista da ottenere con il sudore della fronte, scavando a mani nude o con l’aiuto di una zappa, in giorni e giorni di duro lavoro sotto il sole cocente.

In hotel ci hanno cambiato la stanza e questa è una suite in confronto a quella in stile “Kampuchea Democratica” di ieri notte: abbiamo finalmente un armadio, due poltrone di legno con un tavolino con tanto di pianta e due orchidee posate sopra, un letto matrimoniale con la testata intarsiata e uno split dell’aria condizionata moderno e silenzioso.
Facciamo un giro per Battambang e ci fermiamo a pranzare al Gecko Cafè che ha una bella terrazza ad angolo su Street 2, in un tradizionale edificio coloniale a due piani: non male e abbondante la focaccia al rosmarino con olio e aceto balsamico, ogni tanto c’è bisogno di un ritorno alle origini almeno per il palato.

La cena è un terno al lotto, cerchiamo e ricerchiamo facendoci scorrazzare su e giù per l’East Bank (la sponda orientale del fiume) un locale riportato da una guida del posto e da Trip Advisor, il “Cold Beer Restaurant”, famoso per la birra ghiacciata e la pizza rivisitata alla Cambogiana. Ci infiliamo in un ristorante cambogiano che fa la pizza dove mangiamo sotto una tettoia di legno dove ciascun tavolo è separato dagli altri da pareti di bambù. Si mangia con i tavolini bassi e seduti per terra su dei cuscini. La pizza è un mattone, almeno quella che mangio io, la “Pepperoni” con una massa bianca di formaggio spessa mezzo centimetro, aglio, salamino piccante, peperoni e peperoncino. Rimane in pancia giusto il tempo di arrivare a casa con la moto, poi i crampi mi prendono l’intestino.

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