MOMA

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domenica 30 gennaio 2011

Sangrek river

29 dicembre 2010

Ci svegliamo alle 5.30 perché il battello che andrà a Battambang parte alle 7, giusto il tempo di sistemare gli zaini, fare colazione vedendo nascere la luce, pagare il conto e farci portare da un pulmino al molo.
Il padrone dell’hotel ci sconta le colazioni e ci regala due krama dal momento che la camera della prima notte non è stata quella che avevamo prenotato ma ci ha dovuto mettere in una sistemazione “di fortuna”: è semplicemente straordinario come ci si possa stupire dinnanzi a un atto di cortesia che da noi non sarebbe assolutamente dovuto mentre per loro c’è di mezzo l’onesta e forse anche l’onore.
Non avevo mai visto fare luce così in fretta, un momento prima è buio pesto e subito dopo vedi già diversi centimetri di orizzonte di un vivace color arancione/rosa, dopo ancora poco tutto il cielo si è fatto di un azzurro pallido.

Il molo di Battambang è subito a nord della rotatoria da cui si arriva giungendo da Phnom Penh, è situato in fondo a una scalinata di ferro che è utilizzata nella stagione secca quando l’acqua che refluisce dal Tonle Sap si abbassa di molti metri.
Il costo del biglietto è quanto di più opinabile ci possa essere, almeno tre sono le tariffe “ufficiali”, se non quattro: noi abbiamo pagato 15,98 dollari a testa direttamente al Royal Hotel, dei ragazzi di Milano venti dollari a testa ma avevano sentito parlare di 25 dollari e, infine, i passeggeri locali spenderanno nemmeno un quinto rispetto a noi. Così come indefinito è il tempo di percorrenza, sei ore per alcuni, dieci per altri anche se poi avremmo capito il perché.
La barca non è il solito traghetto “Express” così di moda in Cambogia, un sarcofago metallico bianco con i vetri scuri, ma un barcone di legno con il tetto metallico, dieci file di panche imbottite inchiodate al pavimento che possono accogliere una quarantina di persone ma che, non c’è da meravigliarsi, possono arrivare ad occupare anche centinaia di persone, quando non sono utilizzate per trasportare stranieri. Il tetto è coperto da una stuoia verde di materiale sintetico, lo stesso utilizzato per i sacchi di riso, ed è utilizzato dai passeggeri tanto quanto i posti a sedere per la vista incredibile, anche se il sole di queste latitudini non perdona.



I primi venti o trenta minuti di navigazione avvengono in un tratto del fiume Sangrek circondato da argini alti una decina di metri, tutti coltivati in maniera intensiva, non c’è un solo metro di terreno che non sia stato utilizzato e sfruttato dall’uomo per trarne sostentamento. Non ci sono ancora i caratteristici e incredibili villaggi galleggianti che incontreremo oltre ma le poche barche utilizzate come casa sono, piuttosto, la soluzione per i più poveri di avere un tetto sotto cui dormire.

Il fiume via via diventa sempre più stretto fino a raggiungere una larghezza massima di una decina di metri e il corso diventa sempre più tortuoso, in alcuni punti le curve di 180° impongono alla barca di procedere a passo d’uomo (non che si vada veloci, al massimo raggiungeremo i 19 km/h) e di curvare sfruttando un lungo bastone che da prua è puntato sul fondale basso de fiume, di circa un paio di metri.

Compaiono i primi villaggi galleggianti che sono un vero e proprio spettacolo di ingegneria civile e di sociologia: in un gruppo di una decina di piattaforme galleggianti si può trovare di tutto oltre alle case, il bar che funge anche da ristorante e, in quelle più grandi la stazione di polizia fluviale, il mercato e la scuola. I templi e le case più grandi solitamente sono sulla “terra ferma”, qualche decina di metri distanti dal corso del fiume, su alte palafitte che li elevano nella stagione di alta marea.



Mi è capitato di impantanarmi con una macchina nello Stato Kachin, nel tratto di strada da Myntkyna a Bhamo, vicino al confine con la Cina, ma mai avrei pensato potesse succedere su una barca. E non a causa della presenza di secche nel fiume. Ad un tratto le mangrovie che placidamente discendono il corso del fiume in direzione di Battambang aumentano di numero e dimensione, non sono più dei rami isolati ma dei cumuli spessi mezzo metro e lunghi diversi metri, delle isole verdi galleggianti, tante, troppe per poterci passare con la barca. Infatti, come una nave rompighiaccio cerca la propria strada attraverso i ghiacci avanzando senza timore, così fa la nostra barca attraverso un’isola di mangrovia enorme solo che ben presto la resistenza offerta dall’intricato groviglio di rami e foglie verdi è maggiore della spinta dello scoppiato motore diesel e ci fermiamo. Ben presto la ferita che abbiamo creato nell’isola di chiude dietro di noi e siamo completamente circondati dalle mangrovie, senza poter andare né avanti né indietro perché, nel frattempo, la seppur debole corrente, ci ha spinto contro l’argine. Rimarremo in questa condizione per una mezz’ora, mentre le quattro persone dell’equipaggio si calano in acqua per liberare gli ingranaggi dell’elica e del timone che sono completamente avvolti dalle radici e cercano di disincagliare la prua con una lunga pertica.
Finalmente, come per magia, mentre il motore urla al massimo dei giri frullando in una nuvola di fumo bianco e denso rami, foglie, acqua marrone e insetti, la prua riesce a fendere gli ultimi metri di questa isola e riparte placida la sua risalita verso il Tonle Sap.
Ci rendiamo conto dopo pochi minuti che la situazione appena occorsa non è occasionale ma la regola in questo tratto di fiume dal momento che dopo un’altra ansa l’intero braccio di fiume è invaso, anzi coperto come un giardino, per centinaia e centinaia di metri, da mangrovie. Solo che questa volta il tratto rettilineo del fiume fa si che la barca possa scivolare sopra i rami senza incastrare l’elica, che viene sollevata.

Dopo una breve fermata in un primo villaggio/città galleggiante dove qualcuno si azzarda a mangiare qualcosa nei piatti e bere the nei bicchieri lavati con l’acqua del fiume, scarichiamo mercanzie raccolte a Battambang e ne raccogliamo altre da consegnare lungo strada.

Ci accorgiamo che stiamo per raggiungere il Tonle Sap perché il cono visivo davanti a noi si apre, la larghezza del fiume aumenta e non siamo più circondati a poche decine di metri dagli argini del fiume con le alte palme o le palafitte a fare da “guard-rail”, tutto ciò lascia spazio a distese di campi, un mare verde a perdita d’occhio.
Entriamo nel Tonle Sap, che navigheremo nel suo estremo tratto a nord per una mezz’ora abbondante e riesco finalmente a godermi lo spettacolo del bacino idrico più grande del Sud-Est asiatico, un vero e proprio polmone d’acqua che si riempie durante la stagione delle piogge per l’acqua che risale dal Mekong lungo il fiume Tonle Sap per ridistribuirla a tutti gli affluenti durante la stagione secca, permettendo alla Cambogia di avere sempre un approvvigionamento idrico più o meno costante.
Più che un lago sembra un mare, acqua a perdita d’occhio guardando l’acqua increspata a sud, mentre a nord e a est, verso cui la prua si sta dirigendo, solo la striscia verde della vegetazione che sbuca dall’acqua ora che il lago ha un livello più basso del solito.



E’ un mare desolato, a differenza di altri laghi visti in altre zone del mondo, qui non ci sono barche di pescatori che sembrano preferire i corsi stagnanti e marroni dei fiumi al queste acqua nere come la pece ma, sicuramente meno torbide. E mi viene da pensare a quante persone possono essere state lanciate nelle sue acque durante la follia dei Khmer Rossi, non so per quale associazione di idee mi possa essere venuto in mente ciò, forse il fatto che non amo i laghi e che mi incutono timore.

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