MOMA

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domenica 30 gennaio 2011

Sulle tracce delle roccaforti dei Khmer Rouge

Cambogia nord-occidentale.

Alle 8 puntuali di domenica 3 gennaio Ian o qualcuno il cui nome si pronuncia allo stesso modo ci viene a prendere in hotel per andare verso nord, con una Toyota Camry di seconda mano importata dal Giappone o dalla Thailandia, come sono tutte le autovetture con la guida a destra in questi Paesi.
Ian è ha un portamento pacato, dai movimenti gentili e lenti, un abbigliamento spento, quasi in bianco e nero, che lo invecchiano ben di più dei 36 anni che, invece, non rendono giustizia di una faccia pulita, da bravo ragazzo.

Lasciamo Siem Reap in direzione nord lungo la NH67, una strada che solo da pochissimi anni, un paio circa, si può definire strada in quanto è stata per secoli nulla di più di una mulattiera, una pista scavata nella giungla che portava verso il confine della Thailandia. Una strada infernale, durante la stagione delle pioggie quando diventava un pantano rossastro e quella secca quando era una sorta di “galleria del vento” dove qualunque mezzo passasse sollevava metri di polvere spessa da non vedere a un metro di distanza. E per la sua inaccessibilità, la zona al confine con la Thailandia venne scelta dagli Khmer Rouge come ultima roccaforte da cui continuare a combattere l’esercito governativo: si parla di una decade tra la metà degli anni ’80 e il 1998, anno in cui gli ultimi leaders sono stati finalmente sconfitti, Ta Mok, Khieu Samphan e Nuon Chea mentre Pol Pot morì in circostanze misteriore.

Ora la strada è una lunga striscia di asfalto abbastanza ben tenuto e ancora in fase di miglioramento, almeno fino ad Anlong Veng, il villaggio cresciuto grazie alla presenza degli Khmer Rouge, 120 chilometri a nord di Siem Reap.
L’arrivo in tutti i villaggi/città della Cambogia è rappresentato da una rotonda di grandi dimensioni, di almeno una decina di metri di diametro al cui centro spicca una statua, in questo caso una colomba della pace fatta donata alla città dal Governo cambogiano quando gli ultimi tre criminali furono catturati.
Proseguendo diritti dopo la rotonda, poche centinaia di metri sulla destra si arriva alla casa di Ta Mok, il Capo di Stato Maggiore degli Khmer Rossi, soprannominato il “macellaio” per via delle atrocità commesse. Come in tutte le dittature che si rispettino, la villa a tre piani con vista su un lago fatto creare espressamente da Ta Mok, è in ampio contrasto con le condizioni di vita primitive e brutali che questi criminali hanno fatto patire a qualche milione di Cambogiani e degli stessi soldati Khmer Rossi, che uno si immagina una casta privilegiata quando, invece, sono un branco di morti di fame ignoranti con in mano un fucile e per questo ancora più pericolosi.
L’ingresso a tutte le “attrattive” degli Khmer Rouge costa due dollari, almeno questo è ciò che si paga per vedere la villa di Ta Mok e che ci chiede la guardia, anche se poi nessuno ci chiederà più biglietti. La villa Di Ta Mok sorge su un lago creato dagli architetti, che allagarono parte della campagna circostante facendo morire gli alberi secolari, rimasti come degli scheletri che svettano dall’acqua, paesaggio sinistro in un luogo surreale, con i pavimenti di ceramica raffinata e dipinti dei templi di Angkor alle pareti, oltre a una grande piantina della Cambogia.




Proseguendo oltre verso la Thailandia, inizia il passo che attraversa i monti Dangkrek che formano un confine naturale con il cugino asiatico.
A metà della salita ci sono gli unici esempi rimasti di sculture degli Khmer Rouge, scolpite in maniera abbastanza grezza in un sasso di diversi metri di diametro al centro della strada. Rappresentano una donna, una contadina con in testa un fascio di bambù e tre soldati a cui è stata tolta la testa dalle forze governative quando conquistarono la zona: sulla prima statua, addirittura, la furia è stata tale che è rimasto il solo busto appoggiato a terra, accanto ai piedi vestiti dai tradizionali sandali. Come è tradizione asiatica, anche questo posto è diventato meta di pellegrinaggio, ci sono la ciotola di sabbia con piantati i bastoncini di incenso oltre a offerte di bottigliette di acqua e frutta.
Dopo pochi chilometri si arriva all’ultimo villaggio sul confine, Choam, la cui funzione attuale è quella di essere la città gemella su territorio cambogiano: fino a dieci anni fa si rifugiarono i resti dell’esercito fedele a Pol Pot, ora è rifugio per la manodopera che lavora nei casinò in costruzione dall’altro lato del confine.
In un campo poche decine di metri prima del posto di confine, uno spiazzo assolato circondato da alberi lungo una strada laterale, polverosa, piena di pattumiera, di buche e di cani randagi, ha trovato ospitalità un sudicio e polveroso accumulo di disperati. Gente di tutte le età che vivono in condizioni disumane in tende i più fortunati, su amache circondate da teloni di plastica per garantire un’effimera quanto inutile e ipocrita privacy: bambini pulciosi e pieni di pidocchi a piedi scalzi, ragazze di età indefinita che lavano i panni in mezzo all’immondizia prendendo l’acqua da pozze scavate nel terreno, gli adulti improvvisano un mercato nero con cibo, cinghiali catturati nei monti circostanti soprattutto.
Esattamente in questo posto fu cremato Pol Pot, su una pira fatta di immondizia e pneumatici di camion protetta da una tettoia in lamiera alta un metro e poco più, il 15 aprile del 1998.
Questa piccola capanna di lamiera, lunga un paio di metri e alta uno e qualcosa, è diventata una sorta di tempietto, inspiegabilmente nel lato esposto a nord ci sono offerte di incenso e di acqua, quasi che ci sia ancora qualcuno che possa anche solo comprendere e giustificare il milione e ottocentomila morti causati da questo lucido folle.

Secondo la storiografia ufficiale, Pol Pot fu arrestato pochi giorni prima della sua morte e sottoposto a un processo farsa a seguito dell’ultimo crimine che commissionò, l’uccisione di Son Sen e di tutta la sua famiglia, che stava trattando con il Governo, e la distruzione dei corpi facendoli schiacciare dai camion: come dire, quando è troppo è troppo. Morì però di infarto e fu cremato.
Questa la versione ufficiale.
La “verità” ce la racconta un cambogiano che ci avvicina dopo pochi minuti che osserviamo il punto preciso della cremazione, la cui lamiera ha conservato, non si sa come, delle ceneri mischiate alla terra. L’uomo, un’età indefinita tra i 40 e i 70 anni (ne ha sessanta come ci confermerà poi) parla solo Cambogiano e Ian traduce per noi. Mingherlino, alto al massimo un metro e sessanta, magro e senza un filo di grasso, non un dente sano in bocca ma sorridente, orbo e vestito di sandali, pantaloni più grandi di almeno una taglia e una canottiera sudicia e strappata sulla schiena.
Ci racconta che è stato un soldato dei Khmer Rouge, è nato a Phnom Penh ma si è trasferito ad Anlong Veng quando i gerarchi Khmer batterono in ritirata sotto l’incalzare dell’esercito congiunto vietnamita-cambogiano. Prima fu una delle guardie del corpo di Ta Mok ad Anlong Veng, poi uno degli ultimi fedelissimi di Pol Pot e viveva nella giungla una ventina di chilometri più ad est, in una casa nascosta nella giungla cui si può arrivare solo lungo un sentiero minato.
Secondo l’uomo, dal nome sconosciuto, quando Pol Pot capì di avere i giorni contati si suicidò prendendo una manciata di pastiglie e lo trovarono morto dopo tre ore nella giungla, dopodiché venne bruciato.
Alla fine Ian ci chiede se possiamo dargli dei soldi per le sigarette, ne avrà fumate due nei cinque minuti che è stato con noi, e dopo aver preso sorridente e riconoscente il dollaro che gli allungo, gira tra le capanne mostrando a tutti la banconota verde, come un bambino con un regalo a lungo sognato.



Mi sono sempre piaciute le terre di confine, una sorta di luogo dove lo spazio è indefinito e dove il tempo spesso di ferma, o meglio è indietro di anni se non di decine d’anni. Come il Corridoio 6 nella zona di Kosi Bay in Sud Africa, quella zona di mercato nero una decina di chilometri lungo il confine con il Mozambico, dove lo spesso filo spinato è interrotto in un punto per permettere il passaggio dei Sudafricani in Mozambico a comprare merce a un terzo del costo, anche qui si respira povertà, illegalità e una lotta per sopravvivere che rende lecito qualsiasi cosa. Come nel Corridoio 6, così anche qui una sensazione è chiara: tutti sembrano appartenere a una stessa famiglia, le difficoltà della vita hanno reso più unito questo gruppo di qualche decina di disperati, tutti parlano con tutti e si aiutano nei lavori che stanno facendo: una comune che sorge nel nulla e non porta a nulla.
La sensazione di stranezza e di precarietà è data anche dalla frontiera di Choam, chiusa da uno steccato di legno, pali bianchi e rossi intrecciati e chiusi al centro della strada, in corrispondenza della linea tratteggiata di mezzeria gialla, da una catena da bicicletta. Le guardiole della polizia di frontiera sono chiuse, non si vede anima viva e la strada continua nella foresta in territorio Thailandese.

Torniamo indietro ad Anlong Veng e ci dirigiamo verso la provincia di Preah Vihear, una delle più povere della Cambogia e territorio di guerra permanente: con il rivale storico Thailandese, che recrimina questi territori da sempre e che periodicamente porta a scambi di artiglieria pesante da entrambi i lati (l’ultimo nel 2008) oltre che contro gli Khmer Rouge che fino al 2008 occupavano intensamente la zona.

Prima di arrivare a destinazione ci fermiamo a mangiare dalla zia di Ian, prendiamo una strada sterrata alla destra della principale asfaltata, a una mezz’ora di macchina da Anlong Veng in direzione Est. Si tratta di un gruppo di capanne di legno sopraelevate: quando si sente parlare di villaggi rurali, di vita contadina in Asia, questo è quello cui si riferiscono. La corrente elettrica è erogata da una batteria d’automobile cui sono collegati pure un lettore CD e VideoCD, la cucina nelle piccole fornaci in materiale refrattario in cui le braci fanno da “fuoco” per cucinare, il ferro da stiro un arnese con un coperchio in cui si inseriscono le braci.
Ci viene offerto un pranzo a base di riso e carne di cinghiale fritto, “forest pig” che penso sia cinghiale, che mangio scegliendo chicco per chicco dal momento che cerco di evitare quelli su cui si sono posate le decine di mosche che ronzano imperterrite delle manate che dò all’aria. Mi dispiace lasciare quasi tutto il piatto, Ian mi ripete orgoglioso che questo è il pranzo delle occasioni speciali
Ben presto la piattaforma davanti all’unico ambiente della capanna che fa da cucina, soggiorno, camera da letto e ripostiglio (il bagno, detto anche cesso, è in una capanna dal tetto di lamiera ondulata, in mezzo ai maiali che grugniscono come cani da guardia appena ci avviciniamo) si riempie prima di bambini, più curiosi, poi, come per un passaparola, di giovani di età via via più crescente e, per ultimi, qualche timido adulto curiosi di vedere la coppia di stranieri arrivata fin qui.
I bambini stanno aiutando come possono i genitori, andando a prendere al pozzo che è esattamente di fronte alla casa della zia, l’acqua, caricando poi le cisterne da cinque litri di plastica sulle biciclette. Il lavoro è di responsabilità delle bambine, vispe e impertinenti ragazzine che fanno le linguacce mentre trasportano le taniche sulle biciclette. I bambini più piccoli, alcuni con chiari segni di malnutrizione, seguono il lavoro delle sorelle maggiori, per imparare sin da piccoli.

Arriviamo ai piedi della montagna che ospita il Prasat Preah Vihear verso le tre del pomeriggio e capiamo l’aria che tira già in fondo alla strada. Siamo circondati da una decina di motorini che ci scortano già da qualche chilometro lungo la strada principale e che, appena si ferma la macchina, fanno a gara a chi apre per primo la portiera per offrirti il passaggio in cima alla montagna, per altro “quasi” obbligatorio dal momento che si tratta di un’ascensione di quasi dieci minuti in motorino con pendenze ripidissime che lo scooer affronta in prima marcia. Contratto a 8 dollari per due motorini quando la cifra iniziale era sei dollari ciascuno e inizia l’ascesa al tempio, attraversando un primo tratto di strada che i camion stanno finendo di costruire, enormi ruspe spostano massi di roccia del peso di diverse tonnellate incuranti del fatto che noi zigzaghiamo tra i ciottoli accidentati cercando un passaggio. La salita dura circa un quarto d’ora, con ripidissimi tratti in cui il motorino quasi non riesce a procedere oltre dal momento che siamo in due (e io che cercavo di farci portare su in tre), ma vale, di per sé, il fatto di essere arrivati sin qui: sulla sinistra, verso nord, la vista spazia sul territorio ondulato della Thailandia, la giungla che copre i monti Dangkrek, e sul bordo strada inizia a intensificarsi la presenza di militari con mitragliatori ai piedi, la lunga cartucciera inserita piena di proiettili di grosso calibro. Lungo tutta la strada ci sono cartelli con il simbolo dell’UNESCO dal momento che il Prasat Preah Vihear è stato inserito nei monumenti Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 2008 per cercare di porre un freno alle continue scaramucce che hanno causato diversi morti tanto tra l’esercito cambogiano quanto in quello Thailandese.
All’arrivo nel grande spiazzo polveroso, sotto le bandiere di Cambogia e UNESCO che sventolano in cima ad alti pennoni, ci attende un ragazzo con addosso una giacca verde militare senza alcuna mostrina che ci dice, quasi sussurrando che è della Polizia Turistica e che ci accompagna per proteggerci.
L’atmosfera che non mi piaceva al piazzale peggiora mentre entriamo nel tempio dallo scalone monumentale: ovunque ci sono militari in tenuta e d’aspetto tutt’altro che militare, a torso nudo, in sandali, formano gruppetti che parlano e fumano senza alcun apparente interesse a controllare il confine. Lo scalone monumentale, quello da cui arrivano i turisti che provengono dalla Thailandia (per un accordo possono entrare in Cambogia anche senza visto a patto che non abbandonino il territorio del tempio), non è accessibile in quanto pericoloso visti i rapporti di vicinato e la porta in fondo alla scalinata rappresenta il confine.
Il Prasat Preah Vihear è il monumento più scenografico in quanto sorge su uno sperone di roccia a strapiombo sul territorio circostante, un balzo ininterrotto di oltre 500 metri. Fu costruito oltre mille anni fa dagli stessi sovrani che costruirono il complesso di Angkor ed è dedicato a Shiva, divinità della religione Hindu cui molti sovrani furono devoti in una commistione tra Hinduismo e Buddhismo.
Il tempio si estende in lunghezza, circa cinque-seicento metri, e prevede tre livelli cui si accede per delle scalinate ormai diroccate ma è il tempio centrale quello più scenografico, quello per cui vale la pena arrivare sin qui: è a precipizio sulla roccia e la vista spazia per centinaia di chilometri verso sud.
L’atmosfera è mistica, sarà che non c’è praticamente nessuno, un paio di motociclisti occidentali, qualche Cambogiano venuto in pellegrinaggio e una coppia gay, uno Francese e uno Cambogiano, di almeno una decina d’anni più piccolo, che hanno portato una bottiglia di vino da bere contemplando l’immenso.
Sembra di osservare il Mondo dallo spazio, si vede un’infinita distesa verde velata di bianco, una nebbiolina sfuma il passaggio tra la terra e il cielo rendendo surreale ciò che si vede, tutta la pianura è punteggiata di fumi che si alzano dai roghi che sono stati accesi per bruciare le sterpaglie.



Poco prima che il sole tramonti, riscendiamo a rotta di collo verso il parcheggio dove Ian ci attende per portarci alla guesthouse. Purtroppo, per motivi di sicurezza e per evitare un eccessivo impatto ambientale, l’unica guesthouse e il mercato con le bancarelle alimentari che sorgevano alla base dello scalone monumentale sono state tolte e, ora, l’unica possibilità di soggiornare è nel villaggio di Sra Em, una ventina di minuti di macchina verso Est, cosa che ci farà desistere dal tornare l’indomani mattina per vedere l’alba.
Il villaggio di Sra Em è il tipico agglomerato di ristoranti locali, baracche che fanno da negozi, due guesthouse e qualche casa in mattoni e altrettante palafitte sul retro in seconda fila, lungo un centinaio di metri prima della solita rotatoria. Nonostante l’aspetto sia desolante, brulica di persone ed è molto vitale, tra la polvere sollevata dai camion che fanno tappa obbligata nell’attraversare la provincia di Preah Vihear.
Troviamo posto in una guesthouse recente, all’angolo sud-occidentale della rotatoria, dove per 7 dollari abbiamo una camera di circa tre metri per tre con un letto matrimoniale e un cesso quasi a vista, con una tazza, una doccia e un secchio al posto del lavandino. La finestra non ha i vetri ma solo le persiane verdi e una grata di ferro in tinta, a rendere meno drammatico l’impatto visivo.

Ceniamo in un ristorante dove la luce è portata da deboli lampadine a basso consumo energetico (mai viste così tante lampadine a basso consumo tutte insieme come in questo Paese) ma la tensione deve essere così bassa che quasi facciamo fatica a vedere cosa c’è nel piatto. I quattro o cinque ristoranti del villaggio hanno la funzione dei nostri bar negli anni ’50, avendo la televisione raccolgono gli abitanti che siedono ai tavoli per guardare il telegiornale prima e cartoni animati giapponesi poi.

La notte sarà lunga e tormentata tra il cuscino alto una ventina di centimetri, il letto con il materasso di gommapiuma,la televisione all’ingresso proprio fuori dalla porta sgangherata della camera e il vociare senza alcun ritegno a qualunque ora della notte.

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