MOMA

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venerdì 21 luglio 2006

LA MACCHINA DEL TEMPO: VIAGGIO IN COREA DEL NORD

The "Day of Sun"
Tour to North Korea 11-18 April 2006

Martedì 11 aprile 2006


"Time machine, back to… I don’t know".
Timo, il compagno di viaggio finlandese, pronuncia queste parole ai piedi del Tupolev dell’Air Koryo, la compagnia di bandiera della Repubblica Democratica Popolare di Corea, ai vertici della black list tra le compagnie aeree, in Europa probabilmente non la farebbero atterrare nemmeno per emergenza.
Arriviamo in aeroporto alle 11 del mattino, ci hanno spostato il volo di circa 1 ora e mezzo, dalle 11.25 alle 13.00. Cause imprecisate, loro non dicono, noi non chiediamo, peccato però perché tra fuso orario (+1 ora rispetto Beijing, 7 ore avanti rispetto all’Italia) e l’ora e mezza di volo arriveremo che è già metà pomeriggio.
Finalmente abbandoniamo Pechino, c’è una cappa di calore e di polvere, il cielo color senape chiara, è in arrivo la tempesta di sabbia dal deserto di Gobi, se ne parlerà anche in Italia nei prossimi giorni, sembra nebbiolina, foschia legata all’umidità, in realtà è sabbia che circonda le auto, i monumenti, copre le strade di una polvere sottile rossa, hai voglia a bagnare le strade e i monumenti come fanno da qualche giorno.
Un campanello di allarme suona nella mia testa quando vedo la targhettina di ottone avviata alla carlinga dell’aereo appena entrati: caratteri cirillici e coreani circondano una data scritta in caratteri latini: 1963. L’aereo, il guscio metallico che dovrà portarci indietro nel tempo, ha 43 anni!
Se già non ero entusiasta di sfidare la statistica imbarcandomi nella prima compagnia aerea della lista nera, ora un brivido lungo la schiena mi farà compagnia finché metterò il culo per terra sul suolo coreano. L’interno non mette a proprio agio, spazi stipati, meno di 20 centimetri tra le ginocchia e la fila davanti, tavolini che non escono o che non si agganciano per chi come me è fortunato ad essere relegato in coda con un paravento davanti al posto del sedile.
Atterriamo finalmente a Pyongyang
La pista di atterraggio dista almeno 5 minuti di strada in aereo dal terminal. Cioè, uno di solito atterra sulla pista e intanto vede il terminal, tutti gli aerei parcheggiati; arriva in fondo alla pista e torna indietro. Qui a Pyongyang no: atterri in mezzo alle colline, marrone ovunque con qualche chiazza verde scuro. Attorno alla pista nessun essere vivente né costruzione elaborata, solo un paio di baracche con il tetto di lamiera ondulata, disabitate. L’aereo va avanti, pensi adesso gira e siamo arrivati, invece no, prosegue, ogni tanto gira a destra e a sinistra ma non accenna a fermarsi. L’aereoporto è circondato da un canale e da uno spesso muro di filo spinato con in cima i fili elettrici dell’alta tensione: mi viene il dubbio che anche questo mio notare il filo dell’alta tensione sia solo frutto del condizionamento di questo viaggio.
Finalmente vediamo esseri umani, dei militari che camminano sul ciglio del canale e delle persone indaffarate con qualcosa nell’acqua, e aerei parcheggiati, Antonov e Ilyushin, vecchi e decrepiti ma non per questo in disuso.
Mi accorgo di essere finalmente in Corea del Nord quando dal gigantesco finestrino dell’Ilyushin vedo il terminal dell’aereoporto internazionale di Pyongyang: la scritta Pyongyang con la prima di un’innumerevole sequenza di immagini del Grande Leader, sorridente come sempre, una fila perfetta di denti bianchi nonostante nelle fotografie ufficiali si può notare come non fossero proprio così. Scatto una fotografia furtiva del terminal, ho ancora un certo timore reverenziale nel fotografare, che presto mi abbandonerà.
Arriviamo nella capitale che sono quasi le 4 del pomeriggio. Dopo le formalità doganali che sono inspiegabilmente veloci, pochi controlli ai bagagli, facciamo la prima tappa al Mangyondae Schoolchildren Palace, dove assistiamo ad un’esibizione canora, di danza e musicale di bambini. Tutto perfetto, tutto in perfetta sincronia, quasi finto per non dire finto. Prima di portarci in hotel, le nostre 2 guide (una guida, Mr. Pak, e un presumibile agente dei servizi segreti, Mr. O) ci regalano la libertà di fare due passi in piazza Kim Il Sung, 75.000 metri quadrati di vuoto spinto, la piazza principale della capitale, della nazione che si affaccia sul fiume Taedong, il più importante del paese. La piazza, nemmeno lontanamente paragonabile a Tianan’men in quanto a grandezza, sembra immensa perché è completamente vuota. Ci permettono di camminare liberamente, tutti noi giriamo intorno ai 10 metri quadrati che penso siano quelli concessi, poi prendiamo coraggio a arriviamo fino sotto al Grand People’s Study House, che chiude a est la piazza, una libreria con 30 milioni di volumi: parole, parole, parole…
Arriviamo finalmente in hotel, il Yanggakdo Hotel, un enorme parallelepipedo di 47 piani isolato sulla punta di un’isola sul fiume Taedong.
Tutte le camere dei 12 del nostro gruppo sono vicine, al 29° piano con una meravigliosa vista sulla skyline di Pyongyang.
Ceniamo in hotel, nel "Revolving Restaurant" del 47° piano, un ristorante rotondo che gira per regalare una meravigliosa vista dall’alto di Pyongyang. Peccato che Pyongyang, di notte, sia completamente al buio.


Mercoledì 12 aprile 2006


Dopo la colazione "al solito tavolo" (peccato che il ristorante in cima all’hotel non ha punti di riferimento perché ruota), usciamo, rigorosamente in autobus, per andare a vedere la Torre Juche, un pennone in pietra di oltre 150 metri, eretto per i 70 anni di Kim Il Sung, orgoglio dei coreani perché è la torre in pietra più alta del mondo. In cima alla torre ci accoglie un vento gelido che accompagna la vista meravigliosa di Pyongyang, la parte ovest sviluppata e zeppa di mastodontici monumenti, la parte est popolare, palazzoni, quartieri dormitorio.
Tappa successiva la Mansudae Grand Hill con la statua enorme in bronzo di Kim Il Sung, il braccio sinistro alzato e sorridente dall’alto verso la città. Le guide ci fanno il "regalo" di poter camminare da piazza Kim Il Sung fino alla statua, passando davanti al palazzo dell’Assemblea, circa 500 metri di pseudo- libertà, controllati a vista. Due di noi fanno l’omaggio floreale alla statua del Grande Leader, 3 euro per un mazzo di fiori, probabilmente riciclato.
Sono curioso di vedere cosa ci propone il Museo Coreano dell’Arte, in Piazza Kim Il Sung. Qualche sala è destinata all’arte antica, cosiddetta tutte le opere fino al 1945, dipinti prevalentemente di contenuto paesaggistico; dopo il 1945 inizia l’arte rivoluzionaria, quadri enormi con temi ricorrenti: Kim Il Sung che visita un cantiere, Kim Il Sung sorridente in mezzo a contadini, bambini, militari, gruppi di cittadini che difendono un villaggio dai Giapponesi, Kim Il Sung e Kim Jong Il che intrattengono i Generali dell’Esercito. Strano a dirsi, ma è più interessante l’arte rivoluzionaria, benché ripetitiva, di quella antica.
Partiamo quindi per Kaesong, circa 150 km a sud, l’ultima città prima del 38° parallelo. L’autostrada è deserta, il viaggio non proprio piacevole perché la strada è tremendamente dissestata, nonostante centinaia di "volontari" si diano da fare per aggiustarla, fare e coprire buche nell’asfalto, togliere la polvere dal bordo strada (!!).
Kaesong sarebbe una città fantasma se non fosse per la poca gente che cammina per le strade: edifici vecchi di almeno 40 anni attorno alla collina che ospita la statua in rame, enorme, di… indovinate chi? Kim Il Sung. Impossibile non vederla, sia perché è su una collina, sia perché la strada che conduce a rendere omaggio al Grande Leader, è un ampio viale, lungo diversi chilometri e largo un centinaio di metri, che convoglia lo sguardo.
Raccattiamo all’angolo di una strada un generale (tutti i militari con almeno un etto di medaglie sul petto vengono chiamati "generali" dalle guide) che ci porta a visitare il Concrete Wall, un muro costruito dagli Americani che attraversa tutta la Penisola Coreana da Ovest a Est, costruito per evitare un attacco via terra da parte della Nord Corea. Ci sorbiamo la spiegazione da parte del militare di come è stato costruito, parole dure contro gli Americani, ripensando alla storia attuale mi viene da dargli ragione, è solo buon senso oppure sto kimilsungizzandomi?
Torniamo a Kaesong, lasciamo il Generale a casa e veniamo scaricati in hotel. Come il pullman entra nel parcheggio, il cancello si chiude alle nostre spalle, che rabbia, già pensavo di fare il giro dell’isolato!
Veniamo avvisati che questa sera, stranamente, c’è il black out: cena a lume di candela, doccia calda solo dalle 20 alle 20.30. Ci viene spiegato come un fatto assolutamente occasionale: facile, invece, che situazioni legate alla vicinanza alla zona di guerra facciano decidere per tenere la città al buio. La mancanza di acqua calda, beh, quello ci accorgeremo che fuori dall’hotel di Pyongyang è già un miracolo se abbiamo l’acqua fredda corrente.


Giovedì 13 aprile 2006


Mi sveglio con le ossa rotte e tutto sudato, dopo una notte di merda passata come una fetta di carne sulla brace: dormiamo infatti in un hotel tradizionale, senza letto, solo un materassino sul pavimento riscaldato.
Prima di visitare la DMZ (Zona demilitarizzata) facciamo un giro per Kaesong: omaggio a Kim Il Sung e vista dall’alto della collina della città vecchia, un agglomerato enorme di case ad un piano, i tetti grigi, strette stradine dove ogni tanto vedi passare qualcuno in bicicletta. Vista dall’alto, Kaesong Vecchia mi dà per la prima volta l’idea di essere in Oriente, troppo simile agli hutong cinesi. Basta alzare lo sguardo per vedere un’antenna altissima in cima alla collina, che serve per captare i segnali dalla Corea del Sud.
Ci dirigiamo, infine, verso la zona demilitarizzata, 8 chilometri a sud di Kaesong. Visitiamo prima Panmunjom, il villaggio dove si tenne l’armistizio del 1953 (la pace non è mai stata siglata), all’interno della DMZ, per arrivare poi sul confine vero e proprio. Vediamo a 20 metri da noi un gruppo di occidentali dalla parte sud- coreana che ci guardano. I militari sud- coreani guardano verso di noi, i nord- coreani pure. Chiedo al solito Generale che ci accompagna perché anche i Nord- Coreani guardano verso di noi, la risposta è "per proteggerci dall’esercito sud- coreano".
Lasciamo Panmunjom con la sensazione di aver visto un posto simbolo dell’ipocrisia umana, tutto può succedere ma nessuno fa nulla perché questo possa avvenire, in una zona di guerra regna una pace assoluta, non senti volare una mosca.
Lungo la strada di ritorno a Pyongyang, ci fermiamo alle Cascate di Puyon, dove mangiamo al sacco. Alte 37 metri, sono la prima attrattiva naturale di questo strano Paese. Rimango defilato dal gruppo che si arrampica per un sentiero sulla montagna che porta ad un monastero buddista, voglio starmene seduto sulle panchine di fronte la cascata a scrivere il mio diario di viaggio. Giro un po’ da solo, incontro un militare di nemmeno 18 anni cui chiedo delle notizie ma non capisce una parola, accetta solo una sigaretta, e torno alla cascata per incontrare la nostra seconda guida che, chissà come, era rimasta indietro a guardare le cascate!
Torniamo a Pyongyang e visitiamo il Museo della Guerra di Corea, una serie infinita di sale con fotografie, dipinti, cimeli di guerra che testimoniano gli orrori compiuti dagli Americani nella guerra del ‘50-’53. Ci fa da cicerone in questo museo gelido (ci saranno a stento 10 gradi) una soldatessa che ad un tratto ha una crisi di tosse dalla quale non sembra riuscire a riprendersi: TBC.
Continuiamo la visita in tema militare con la nave spia americana "Pueblo", catturata nel 1968 da soli 7 marinai nord- coreani contro 81 americani. Uno di questi 7 "eroi" adesso è capitano della nave, vive segregato su questa scatola metallica, vedrà qualche visitatore ogni morte di Leader, cui fa vedere un filmato noiosissimo sulla storia della nave. Mi diverto di più a guardare sprazzi di vita normale lungo il fiume Taedong: una barca con due pescatori, 3 vecchietti con la canna da pesca, una bambina in una tuta imbottita sul lungo- fiume.
Questa sera ceniamo in un ristorante per stranieri in una piazza: solo la piazza è illuminata, la via accanto è spenta. Ci rincuoriamo con la cena migliore mai avuta in Corea del Nord e torniamo al Yanggakdo con un po’ di vergogna.


Venerdì 14 aprile 2006


Ci mettiamo in marcia la mattina presto, appuntamento alle 8 ma gli ascensori del Yanggakdo Hotel rispecchiano la situazione del Paese, in ritardo, malfunzionanti, rigorosi nel loro fermarsi ad ogni piano anche se non ci sono turisti da accogliere, fanno slittare la partenza alle 9. Tappa Wonsan, il porto principale della Corea del Nord sul Mare del Giappone: ho chiesto io all’agenzia che ha organizzato il tour di inserire questa città, sia perché è un punto di passaggio obbligato per le Montagne Kumgang, "il paesaggio più spettacolare" della Corea del Nord come recita la Lonely Placet, sia perché così lontana da Pyongyang (200 km a est) permette di entrare in contatto, almeno così mi illudo, con i Coreani. L’autostrada è il solito tormento di buche, percorsi a zig- zag per evitare i lavoratori "volontari" che fanno e coprono buche, puliscono le pareti rocciose a fianco dell’autostrada. Per il pranzo ci fermiamo nella Cooperativa Eherit che alleva trote: inserita in un paesaggio color senape, riarso dal sole, è costituita da una serie di vasconi enormi divisi da muretti con pochi pesci che girano in tondo. "La rappresentazione di questo Popolo, tutti insieme nello stesso spazio che girano senza futuro, senza poter andare da nessuna parte" è il commento del mio compagno di viaggio Finlandese. Dopo il ottimo pranzo self- service sotto un tendone, ci dirigiamo nella Cooperative Society Chensam a breve distanza da Wonsan, una tipica fattoria collettiva sicuramente organizzata alla perfezione per i turisti: se questa è quella di rappresentanza, chissà le altre! Si entra pe un lungo viale polveroso, ben segnalato da due piloni all’ingresso, bianchi e rossi con scritte propagandistiche. Lo sguardo della gente è allucinato, rassegnato. Anche qui le contraddizioni che percepisci come più pesanti perché sulla pelle dei poveri cristi: un carro trascinato da un bue rinsecchito passa davanti a un monumento enorme con la foto dei due Leader; un camioncino che, causa la scarsità di combustibile, è convertito con un motore a carbone; campi bruciati dalla siccità e circondati da paletti di bambou con i drappi rossi del periodo della semina. La Cooperative Farm racchiude in sé un piccola città: la Sala dell’Assemblea che domina il centro dello spiazzo centrale, fatiscente e a pezzi, un nugolo di persone si prodiga a sistemarla; un gigantesco monumento di marmo ai Leader; una statua di 4 metri di Kim Il Sung sul punto più alto della fattoria; uno spaccio con poca mercanzia e una tabella con i prezzi imposti per il 2006; su un muro i diagrammi della produzione della Cooperativa si affiancano a slogan e murales propagandistici. Ci fanno visitare una casa, una piccola stanza fa da salotto, c’è una televisione ma per bellezza dal momento che non ci sono cavi, le immancabili fotografie dei due Leader appese sulla parete di fronte la finestra. Una stanza da letto per i due genitori e il bambino piccolo, una cucina con tre pentoloni su fuochi a legna. Il cesso, perché chiamarlo bagno è un offesa alle peggiori turche delle nostre stazioni, è fuori: un buco tra le assi di legno, in mezzo a un odore che non ho sentito nemmeno sulle barche che scendevano l’Irawaddy ad agosto.
Gli unici che si avvicinano a noi, senza venire a contatto ma come un gioco, nascondendosi dietro i tronchi degli alberi mentre camminiamo sono due bambini: gli adulti ci seguono con lo sguardo dai gradini della Sala dell’Assemblea. Strano, sul programma c’era scritto "Visita alla Cooperative Society Chensam, dove possiamo visitare le case degli agricoltori, parlare con gli agricoltori e avere l’opportunità di vedere l’agricoltura Coreana e l’allevamento del bestiamo in azione!". A proposito, di bestie nemmeno l’ombra…
Torniamo, anzi arriviamo a Wonsan, a metà pomeriggio: una "bella" città, sarà perché c’è il mare, sarà perché le strade sono piene di bambini che fanno le prove per la festa del giorno dopo. Le guide ci consentono di camminare per una ventina di minuti sul lungomare: i bambini ci seguono a frotte, ci fanno da ali, guardandoci incuriositi e sorridendoci. Ad un tratto compaiono delle persone vestite di scuro che urlano qualche cosa, i bambini si fermano all’improvviso, impauriti. Mi accorgo che sul bordo della strada un coreano ci sta riprendendo con una videocamera: magari è solo un turista cinese (la differenza dei tratti somatici a volte è appena percettibile), magari è la paranoia di essere costantemente inseguiti, magari ci stanno veramente riprendendo, comunque chi del nostro gruppo si è accorto di questa cosa sorride verso la telecamera facendo "ciao" con la mano.
Ci portano al Campo Estivo Internazionale dei Bambini, la classica colonia per studenti dove "tutto è costruito a misura di bambino secondo le indicazioni di Kim Il Sung in persona". Scale mobili (!!), un parco giochi vuoto con tanto di toboga e piscina vuota all’arrivo (vabbè, non è stagione, ci saranno al massimo 4 gradi ma non posso credere che questa gente possa anche solo divertirsi), la spiaggia è circondata da un muro di 3 metri. E ancora, una sala con tante televisioni e videogiochi ma vuota; una stanza con 6 letti singoli, un tavolino con un telefono: seguo con lo sguardo il cavo del telefono che finisce dietro una tenda, tranciato nella sua estremità. All’esterno un maestro sta facendo le prove di come portare il saluto l’indomani alla statua di Kim Il Sung, osservo per una decina di minuti sempre gli stessi passi, che devono essere coordinati, il braccio alzato con un acerta angolazione, ecc.
Arriviamo all’hotel Tongmyong, sulla spiaggia che però è chiusa da cancelli, freddo, gelido, senza luce. Solo le camere sono riscaldate, il pavimento è infuocato tanto che fai fatica a camminare a piedi scalzi, la luce dell’abat- jour va e viene a seconda del funzionamento del generatore elettrico.
Mangiamo in un’enorme sala ristorante, spoglia, un televisore contro una parete trasmette musica popolare: la luce è bassa ma soprattutto fa freddo, molto freddo, terribilmente freddo. Mangiamo con i cappotti, riuscendo a resistere un’oretta e mezza prima di rintanarci al caldo delle camere. L’acqua calda è solo tra le 20 e 20.30. Di ritorno in hotel mi diletto a vedere l’unico canale televisivo che sta trasmettendo una seduta del Parlamento: gremito in ogni ordine di posto, tutti perfettamente ordinati in platea, tre balconate anche queste piene, saranno in tutto mille persone. Dietro il tavolo della dirigenza il faccione enorme del Grande Leader, sorriso perfetto nonostante nelle fotografie abbia un dente scuro e un canino disallineato; la dirigenza è inquadrata solo da lontano mentre le inquadrature da vicino sono solo per l’auditorium. Gli applausi, brevi, 4 o 5 secondi, iniziano e finiscono tutti insieme; le uniche parole che capisco, anche perché ripetute spesso "Kim Il Sung" e "Juche".


Sabato 15 Aprile 2006


Oggi è il compleanno di Kim Il Sung, "Il Giorno del Sole" e se non fosse per aver visto le Cooperative, i lavoratori lungo le strade, Kaesong, sembrerebbe un Paese normale. In tutte le piazze, ovunque ci sia un’immagine del Grande Leader, ci sono lunghissime processioni di coreani, dal più piccolo al più anziano, che portano rispetto alla statua del Padre della Patria. File lunghissime, ben irreggimentate in blocchi di qualche centinaio di persone, avanzano a intervalli regolari verso il centro del monumento, si fermano, i civili si inchinano tre volte, i militari fanno il loro saluto, chi porta enormi composizioni floreali, chi semplicemente offre la propria presenza. I bambini, perfettamente istruiti su come rendere omaggio al Leader, hanno la divisa della scuola, gli adulti quella della festa: divisa per i militari, abito scuro (dalle scarpe alla camicia alla giacca con il collo alla coreana) con la cravatta per gli uomini, vestiti molto colorati anche se di un colore solo per le donne.
Torniamo a Pyongyang per recarci sul luogo di nascita di Kim Il Sung, Mangyongdae, una collina a 13 chilometri da Pyongyang, dove in una serie di capanne di fango con il tetto in paglia (le umili origini come Gesù Cristo) ha visto la luce il Grande Leader. Siamo all’interno di un parco, pieno di gente che approfitta della giornata di festa nazionale per fare un pic- nic, per andare sulle giostre del parco divertimenti accanto, semplicemente per una passagiata come il bambino mano nella mano con il padre, un’angosciante divisa militare con tanto di fondina con la pistola alla cintura. Le famiglie fanno la fila per farsi fotografare dal fotografo ufficiale davanti la casa natale: dai campioni esposti su un pannello noto che sono fotografie approssimative, orizzonti inclinati, persone che passano davanti, folle incredibili alle spalle che coprono l’oggetto più rappresentativo dello scatto. Soprattutto, nessun sorriso e una grande preparazione prima di mettersi in posa, con pettini e specchietti.
Dopo un pranzo anonimo in un ristorante anonimo, ci portano a vedere un’Esibizione Acrobatica Coreana in un teatro. Praticamente un odioso circo, con tanto di cavalli che corrono all’impazzata in un’arena di 20 metri di diametro, orsi vestiti da uomini. Carini gli sketch che sono comprensibili grazie alla gestualità e fanno ridere nonostante non si capisca una parola: il tema di fondo è sempre lo stesso, la Patria. Paradigmatico lo sketch di un marito che scappa dalla moglie dopo aver rubato i soldi della casa e si nasconde dall’amico parrucchiere. La moglie, dopo varie peripezie, fraintendimenti, lo scopre, botte che volano fino al perdono finale quando il marito rivela che aveva rubato i soldi della casa per darli al Partito.
Dopo un’ora di tortura circense, ci portano all’Esibizione Floreale dei Kimilsungia-Kimjongilia, le due varietà di begonie create e selezionate per rendere omaggio ai due Leader. In un edificio su due piani, ci sono centinaia di composizioni floreali di queste due varietà di begonie color rosso fuoco, presentate dall’Esercito, istituzioni nazionali, ministeri, amici stranieri e nord- coreani espatriati. Anche qui folle di gente in fila per farsi fotografare ora con questa ora con quella composizione, gruppi di miliari, alcuni non superano i 15 anni. La peculiarità di quest’esibizione floreale, sconvolgente, l’assoluta mancanza di odori o profumi: anche avvicinandomi ai fiori, non sono riuscito a captare il benché minimo profumo.
Ci rechiamo al negozio per i turisti internazionali (come se ci fosse un turismo interno), in una stradina secondaria del centro: la porta è chiusa, dobbiamo suonare e ci viene ad aprire una signorina. Dentro il nulla, qualche stampa, dipinto, oggettistica varia con un prezzo spropositato rispetto non solo al valore reale ma anche a ciò che potrebbero rappresentare. Chi pagherebbe 15 euro per un grembiule da cucina con la penisola coreana?
Sul far della sera ci fermiamo in una piazza a vedere le danze per la festa nazionale. Inizialmente avremmo dovuto partecipare a quella in Piazza Kim Il Sung, probabilmente per motivi interni coreani, veniamo relegati in una piazza secondaria, di fronte l’Ice Rink, uno stadio del ghiaccio a forma di cono gelato.
E’ l’imbrunire ma i colori delle centinaia di persone in abiti tradizionali non sono certo meno impressionanti, anche qui organizzati in blocchi. Seduti per terra, ascoltano il discorso di un funzionario di partito in piedi davanti un edificio, la voce metallica distribuita da un pulmino con gli altoparlanti sul tetto. Finito il discorso parte la musica, sempre dagli altoparlanti mobili, e la gente inizia a danzare, ognuno all’interno del proprio blocco, sorridendo e ridendo di gusto. Tutto intorno alla piazza una decina di uomini vestiti di nero che controllano, sarà paranoia?
Qualcuno del nostro gruppo si unisce ai coreani che ballano, anche questo è previsto dal rigido protocollo del nostro viaggio. E’ ormai buio e, dopo la cena in un ristorante dove proviamo per la prima volta una zuppa di noodle fredda con pollo, senape e aceto (per niente male) torniamo in hotel attraversando una Pyongyang finalmente illuminata, almeno per quanto riguarda le strade e gli edifici pubblici, anche se qualche luce in più si nota anche negli immensi edifici popolari più simili ad alveari che a case.


Domenica 16 Aprile 2006.


Il Mausoleo di Kim Il Sung è il vecchio palazzo dove ha abitato il Grande Leader che è stato trasformato in simbolo pagano, anzi di fede, dal Popolo Nord- Coreano nel giro di un anno dalla sua morte, il 7 luglio 1994. E’ forse l’edificio, il monumento più tragico e allucinante che la mente umana possa aver partorito, migliaia di tonnellate di marmo e granito per proteggere e custodire la salma imbalsamata di Kim Il Sung.
Una coda chilometrica e silenziosa rimane in attesa di entrare, la gente vestita in maniera impeccabile, lo sguardo ostile. All’interno veniamo spogliati di tutto, chewing- gum compresi, ottengo a stento di poter tenere nella tasca dei pantaloni il passaporto, veniamo bombardati di raggi-X attraverso un corridoio di 3- 4 metri circondato da schermi neri: dall’altra parte dei solerti uomini della sicurezza staranno contando quante ossa abbiamo in corpo e cosa abbiamo nello stomaco. Non è possibile camminare, un lunghissimo tapis- roulant, lungo circa 1 chilometro, impiega 20 minuti per portare dal check- in all’ingresso del mausoleo vero e proprio. Lungo tutto il tragitto, complice la lentezza del nastro trasportatore, il marmo che dà un’aria asettica all’ambiente, si viene pian piano iniziati all’incontro con il Grande Leader, attraverso delle vetrate che danno sulla facciata nord del immenso sarcofago. Mi viene da pensare a un film in cui noi siamo carne che alimenta un enorme tritatutto, non so come mai ma ho questa impressione.
Arriviamo finalmente nel mausoleo. La prima sala dà subito l’idea del posto in cui siamo capitati: una stanza lunga 30 metri, larga una ventina e alta altrettanto, una musica funebre in sottofondo, dall’altra parte una gigantesca statua di Kim Il Sung che ti accoglie. Lo sfondo è indistinto, non è a fuoco, colori pastello dal rosa in basso che sfuma nell’azzurro in alto, non ben definiti alterano la profondità di campo, sembra di essere in un non- luogo, noi piccolissimi in un ambiente sovrastato dalla statua del Grande Leader. Pian piano ci avviciniamo alla statua anche perché l’ingresso alla stanza con il Corpo è alla sinistra di Kim Il Sung.
Prima di entrare nella stanza funebre passiamo attraverso delle porte a vetri con dei getti di aria fredda che servono a "pulirci" dalle impurità, per non contaminare il cadavere, e dobbiamo camminare su un tappetino impregnato di disinfettante. Entriamo finalmente nella sala dove c’è il corpo, in una teca di vetro, circondato da soldati armati. A gruppi di 5, con almeno un coreano nel gruppo che detta i tempi per gli inchini, giriamo intorno al sarcofago, bisognerebbe fare i 3 inchini di rito ma proprio non ce la faccio, rimango in piedi a guardare in faccia gli altri coreani che piangono, non so se sinceramente o sono lacrime comandate.
Ci rechiamo nella sala accanto, dove ci sono tutte le onoreficienze ricevute dal Grande Leader, comprese le cittadinanze onorarie di diverse città italiane: Sarzana, Magenta, Mondovì, San Giorgio a Cremano, queste quelle che mi ricordo, anche se al momento avevo cercato di ricordarmele tutte per poi scrivere una lettera ai rispettivi sindaci. Voglio sperare nella buona fede del momento in cui sono state assegnate, sarebbe come se il sindaco di Bergamo avesse assegnato la Cittadinanza onoraria a Hitler benché a conoscenza di Auschwitz.
C’è anche la "stanza del dolore", dove delle donne in abiti tradizionali spiegano il significato di enormi bassorilievi raffiguranti il popolo coreano che si dispera per la morte del Grande Leader. Le "Ciceronesse" stesse singhiozzano e fanno scene da operetta mentre illustrano il significato delle sculture.
Finalmente usciamo da questo "buco nero", che assorbe qualunque energia, per recarci al Cimitero dei Martiri Rivoluzionari sul Monte Taesong, una collina a nord del centro. E’ il mausoleo che ricorda i soldati morti per liberare il Paese dai Giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Una scalinata di 300 gradini, tutti in granito, termina davanti un monumento su cui una frase di Kim Il Sung, ricorda la gesta dei martiri. Ai lati della scalinata centinaia di busti a grandezza naturale, ricordano e commemorano i morti. Merita una visita solo per il panorama mozzafiato di Pyongyang che si osserva dalla cima della scalinata.
Per stemperare la tensione accumulata ci portano al parco divertimenti di Taesongsan, un’oasi di apparente normalità se non fosse per i militari armati di mitra che camminano come niente fosse tra le famiglie e i bambini. Facciamo un giro sulle Montagne Russe, enormi, gigantesche, i vagoncini senza il benché minimo dispositivo di sicurezza. E’ bello vedere la gente che urla per l’adrenalina della discesa, che grida felice agitando le braccia, momenti di assoluta normalità, insomma, potrei essere a Gardaland ma sono in Corea del Nord.
Continuiamo il giro dei Monumenti Rivoluzionari: il Monumento alla Vittoria della Guerra di Liberazione dell Madrepatria, cioè nella guerra contro gli Americani dal 1959 al 1953. E’ spiazzo lungo qualche centinaio di metri, circondato da statue rappresentanti vari corpi militari impegnati nella guerra, proprio sotto il Ryugyong Hotel, che finalmente riesco a fotografare da vicino, dopo giorni e giorni di richieste che la guida Pak è sempre riuscito a eludere: uno smacco per il popolo coreano che non è riuscito a terminare il mostro di oltre 30 metri, a forma di piramide, su cui centinaia di architetti del mondo stanno studiando il modo di riconvertirlo, sempre che il regime permetta di fare qualcosa.
Arriviamo, prima di pranzo, all’Arco di Trionfo, un’unica struttura di granito alta 60 metri, "qualche metro in più di quello di Parigi" come amano ripetere i Coreani: sorge nel punto in cui Kim Il Sung dichiarò la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Nella piazza accanto, di fronte allo Stadio Kim Il Sung, ci sono bambini che giocano con gli aquiloni e con i Rollerblade. Tutto normale, insomma…
Dopo un pranzo anonimo, sarà che dopo la mattina al Mausoleo di Kim Il Sung mi è passata la fame, andiamo alla Libreria Internazionale, dietro piazza Kim Il Sung: i libri sono tutti uguali, gli stessi che trovi negli hotel, ad un prezzo inferiore: tutta l’opera filosofico- politica di Kim Il Sung, oltre 50 volumi, la rivisitazione da parte del figlio, le biografie di entrambi, più o meno condensate, vari scritti politici sulla storia internazionale attuale ("la politica imperialista degli USA", "violazione dei diritti umani in Corea del Sud", "lo stato terroristico degli USA", ecc.), libri di favole con Kim Il Sung protagonista, CD di karaoke, tutta la saga cinematografica sulla liberazione del Giappone, spilline, ecc. I prezzi sono imposti dal Governo ma, da bravo italiano, riesco a ottenere ben 5 euro di sconto su un acquisto di 85 !
Torniamo in hotel per preparare i bagagli, ceniamo in un ristorante in centro (siamo sempre e comunque solo noi del gruppo) dove nessuno ha voglia di parlare, e terminiamo la serata nel Ristorante Ruotante in cima al nostro hotel, in mezzo a Vodka e birra con un cinese di Shangai e cercando di coinvolgere nell’euforia la cameriera coreana.


Lunedì 17 aprile 2006


Si torna in un Paese libero: la Cina!
Il giorno del rientro in treno a Pechino ci svegliamo con una nevicata su Pyongyang.
Il treno per Pechino parte puntuale alle 10.10 dalla Stazione Centrale: Pak e Mr. O ci accompagnano fino sulla carrozza e si accertano che ciascuno di noi sia sul treno quando questo si mette in moto. Ci salutiamo con un abbraccio, debole quello che ricevo da Mr. O, più sentito quello di Pak: entrambi sono sorridenti, forse sono sollevati dal fatto che non hanno avuto il minimo problema con noi. Sul treno siamo di nuovo in gabbia. Le ultime due carrozze sono quelle internazionali, arrivano a Pechino e sono isolate dal resto del treno, chiuse a chiave. Il treno fa 5 o 6 fermate prima di arrivare al confine con la Cina ma le porte della nostra carrozza è rigorosamente chiusa, dobbiamo chiudere anche i finestrini che comunque non sono del tipo a discesa ma una specie di lunotto che si apre di pochi gradi in cima al vetro. IL pranzo stesso dobbiamo ordinarlo al capotreno che ce lo fa recapitare da un inserviente, nonostante ci sia la carrozza ristorante. Dai finestrini vediamo le solite scene cui non riusciamo ancora ad abituarci, campi riarsi dalla siccità, gli sguardi delle persone che abbandonano qualunque attività mentre passa il treno, sorta di casellanti che si piazzano in mezzo alla strada perché non c’è il passaggio a livello.
Dopo 227 km, oltre 6 ore, alla media di 40 km/h arriviamo a Sinuiju, ultimo avamposto di questo regime dittatoriale prima della libertà, la città di Dandong sull’altra sponta del fiume Yalu. Le procedure doganali sono lunghe e complesse, quasi che abbiano più paura di quello che portiamo fuori rispetto a quanto possiamo portare in Corea del Nord. Un piccolo incidente diplomatico, nessuno dei militari deputati ai controlli sanno che paese sia la Finlandia, ci areniamo per una mezz’ora buona nel far capire ai militari, a gesti, con i disegni, dive sia la Finlandia. "Pinla-du…" continua a ripetere il giovane soldato, guardando in alto come se stesse scavando nella memoria alla ricerca di questo paese . Mi ricordo che ho comprato una cartina del mondo "Corea- centrica", cioè con la Penisola coreana al centro: la tiro fuori ed ecco che tutto si sistema "Ahhh… Pinla- du!", i militari riescono a collocare geograficamente questi suoni strani che uscivano dalle nostre bocche.
Arriva il mio turno, devo entrare nello scompartimento e aprire tutti i bagagli. Alla fine, il militare giovane mi dice una cosa che mi lascia perplesso: "I m sorry".
Dopo il controllo possiamo scendere nella stazione, entriamo in uno stanzone freddo che sarebbe la sala d’aspetto, sporca, buia, fredda, un bancone vende delle bottigliette d’acqua, delle cartoline e qualche birra.
Finalmente si attraversa il confine, dal ponte sul fiume Yalu si vede il vecchio ponte distrutto dagli Americani nel 1950: la metà cinese ormai è stata ricostruita, quella coreana ha solo i piloni che spuntano dall’acqua.
La spiaggia di Sinuiju sulla riva dello Yalu ospita un parco giochi con tanto di ruota panoramica, disabitata, probabilmente è vietato l’accesso per non far vedere l’opulenza e lo scintillio dei grattacieli che sono sorti sulla sponda cinese, a meno di 500 metri dal futuro. Finalmente arriviamo a Dandone, un’esplosione di luci, merci di tutti i tipi, casinò, grandi magazzini. Sembra di essere avanti 100 anni, ma siamo a soli 500 metri di distanza dall’incubo.

Max Lombardo

35 commenti:

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